martedì 13 aprile 2021

La ritirata di Russia (1812 ) nelle Memorie di Bourgogne, sergente della Guardia di Napoleone

 


Leonello Oliveri
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La storia che presentiamo oggi è sempre
una drammatica storia di guerra, ma di una guerra più antica: parleremo di della disastrosa ritirata, dalla Russia, durante la campagna napoleonica del 1812.
Per riviverla useremo le memorie di un soldato che la visse e sopravvisse, un altrimenti anonimo sergente della Grande Armèe Adrien Jean Baptiste Francois Bourgogne. Di quella vicenda ne fece un libro, che Hitler, Mussolini e i vertici delle nostre forze armate avrebbero dovuto leggere. Ma non lo fecero.

Adrien Jean Baptiste Francois Bourgogne (1785-1867) si era arruolato, ventenne, nei Veliti della Guardia napoleonica. La sua carriera è lunga e perigliosa.
Nel 1807 lo troviamo caporale in Polonia, nel 1809 viene ferito a Essling, Dopo, fino al 1811, è presente in tutti i campi di battaglia in Austria, Spagna, Portogallo.
A Marzo del 1812 il suo reparto lascia Almeida (Portogallo), il 25 giugno arrivano in Pomerania (all’epoca Prussia, ora in Polonia) , dopo aver attraversato, a piedi, Spagna, Francia, Franconia, Sassonia, Prussia, Polonia.
Attraversato il Niemen il 25 giugno, Bourgogne, ormai sergente della Guardia, entra in Lituania, prima provincia della Russia, il 30, dopo aver rischiato di annegare in un canale scambiato, nell’oscurità della notte, per una strada, raggiunge fradicio Wilna, Vilnius, attuale capitale della Lituania
E’ l’inizio della spedizione in Russia.
La grande invasione era iniziata.

Il sergente Bourgogne
Dalla disastrosa spedizione il nostro Adrien (d’ora innanzi lo chiameremo così) riuscirà a sopravvivere, rientrando in patria il 13 marzo del 1813. Il suo reggimento è ridotto a 26 uomini.
Ma non molla.
A dicembre dello stesso anno, lo troviamo col grado di sottotenente in Prussia. Ferito nella battaglia di Dessau, cade prigioniero.
In prigionia incomincia a scrivere le sue memorie, o meglio le memorie della spedizione in Russia.
Con la caduta di Napoleone e il ritorno dei Borboni in Francia (1814-15), rassegna le dimissioni dall’esercito. Si sposa, la moglie poi muore lasciandogli due figli, si risposa una seconda volta avendo altri due figli. Ogni anno, il giorno dell’anniversario dell’ingresso delle truppe francesi a Mosca (14 settembre) si incontra coi vecchi commilitoni, la Guardia aveva il culto del passato (ricordiamo anche qui “il duello” di Conrad) e “ils buvaient, à tour de rôle, dans un gobelet rapporté du Kremlin, bevono a turno in una tazza portata dal Cremlino.
Nel 1830 viene nominato Lieutenant adjutant de la place a Brest, nel ’32 è trasferito a Valenciennes.
Muore nel 1867.
Le sue memorie vennero più volte pubblicate. 


E affrontiamo finalmente la “sua” spedizione in Russia, riprendendo dal 27 luglio, in marcia verso Borisow: primo grande scontro contro i Russi a Witebsk (in Bielorussia, al confine fra Russia e Lettonia) con la cavalleria di Murat che fa quadrato. Qui fa conoscenza con Florencia, une jolie Espagnole notre cantiniere, già promessa sposa a un sergente ucciso dagli spagnoli a Bilbao e ora “en attendant qu'elle en ait choisi un autre, il faut la protéger”: protezione rispettosa ed efficace offerta da 12 tamburi dei volteggiatori, tutti, buono a sapersi per gli altri, vrais spadassins, veri spadaccini. Verranno poi quasi tutti uccisi nella battaglia di Borodino, nella quale fu ferita anche lei, colpita a un dito che le sarà poi amputato da Dominique Jean Larrey, famoso chirugo dell’Armata, “inventore” delle ambulanze di campo: a Smolensk in 24 ore eseguì 200 amputazioni 

La truppa gode di una sosta di 15 giorni che il nostro sergente passa a … fabbricarsi la birra presso un “juif (ebreo) qui avait una jolie femme et deux filles charmantes”; risultato “cinq tonnes de bière exellente”, cinque botti di buona birra: il 13 agosto, al momento della partenza, quello che ne resterà (due botti) finirà sul carro di un’altra cantiniera, mère Dubois, che avrà “le bon esprit de rester en arrière et de la vendre, à son profit, à ceux qui marchaient après nous , tandis que nous, marchant par la grande chaleur, nous mourions de soif” (che ha avuto la bella trovata di restare indietro e di venderla, per il proprio profitto, a coloro che ci seguivano, mentre noi, camminando nel gran caldo, morivamo di sete).

16 agosto, battaglia di Smolensk: un assalto alla baionetta cantando la “chanson de Roland” e la città è presa.



Poi a lunga marcia in un territorio desolato, fatto terra bruciata dai russi che rifiutano il combattimento per attirare sempre più all’interno l’Armata francese. I cavalli incominciano a morire di stenti, i soldati soffrono la fame e il caldo. Il 5 settembre altro cruento scontro presso Ghjat: nell’attesa della battaglia “l’un prépare ses armes, d'autres du linge en cas de blessure, d'autres font leur testament, et, d'autres, insouciants, chantent ou dorment. Toute la Garde impériale eut l'ordre de se mettre ei grande tenue ».

Il 7, Napoleone riesce finalmente ad agganciare (ma non a circondare) il nemico: sarà la grande battaglia della Moskowa (altrimenti nota come battaglia di Borodino, la più sanguinosa delle battaglie della spedizione). Bourgogne annota: “ cent vingt mille coups furent tirés par nous”

Il 14 settembre finalmente un grido serpeggia fra le truppe ”Moscu, Moscu”.
Mosca nel 1812



A Mosca
Alle tre del pomeriggio, sotto un dolce sole settembrino, La Guardia in gran tenuta entra in città: “ In questo momento sofferenze, pericoli, fatiche, privazioni, tutto fu dimenticato (..) per non pensare che a fare conquiste d’altro genere: dal combattimento all’amore, dall’amore al combattimento”.
Il sergente Bourgogne ( e anche Napoleone) credeva che fosse finito. Invece tutto doveva ancora incominciare.

Adrien coi suoi uomini si immerge nella grande città.
Ad un crocevia primo incontro con una donna russa: “ mi diede un pezzo di pane nero come il carbone e pieno di fili di paglia: io le diedi un pezzo di pane bianco che mi aveva regalato mère Dubois, la cantiniera del nostro reggimento. La signora arrossì e io sorrisi. (…) Un’ora dopo il nostro arrivo cominciò l’incendio della città”, incendio che tuttavia, ricorda Adrien, non fece poi tanti danni e non fu certo ciò che costringerà i francesi ad abbandonare la città di lì a un mese.

Per Adrien incominciano giorni di piccoli scontri con dei coquins, “mascalzoni”, ubriachi e armati di lance con i quali si combatte incrociando le baionette, o con dei forzati liberati dai Russi in ritirata che propagavano l’incendio con fiaccole. Oltre che con coquins e forzati devono combattere anche con trappole esplosive: mentre erano in una stanza la stufa accesa (nella quale erano stati collocati palle esplosive), scoppia con gran fragore, nessun danno ma l’intero edificio va a fuoco.
Ma ci sono anche incontri inattesi, come quando Adrien coi suoi uomini sente urla di donne qui appellaient au secours en francais. Entrati nell’edificio scorgono alcune donne alle prese con gendarmi russi: si trattava.. di una compagnia teatrale francese in tournée. I gendarmi scappano.

Il giorno dopo, la piazza rigurgita di “Calmucchi, Cinesi, Cosacchi, Tartari, Persiani, Turchi”: erano i soldati francesi agghindati con quanto avevano trovato nelle ricche dimore risparmiate dalle fiamme.

Ma la guerra è sempre presente. Nel pomeriggio un ordine increscioso: eliminare a colpi di baionetta un giovane russo sorpreso a incendiare un palazzo: “ ma il soldato francese è poco propenso ad uccidere a sangue freddo e con la baionetta”, e i colpi inferti con poca convinzione non attraversano neppure il cappotto del prigioniero. Però il generale che ha dato l’ordine vuole vederlo eseguito e resta lì in attesa. E così bisogna ubbidire, non però con la baionetta, ma con un più misericordioso colpo di fucile esploso da un soldato. Più tardi la scena disperata della moglie del povero fucilato che si getta sul cadavere del marito, “tenendo la testa del morto sulle sue ginocchia”. Alla vista “il mio cuore sanguinava”.

Nella notte fra il 15 e il 16 “mi prese il desiderio di fare una visita al Kremlino di cui si parlava tanto”. Ma non hanno il navigatore e si perdono.
Ad un tratto incontrano “un juif qui s’arrachait la barbe et le cheveux”, un ebreo che si strappava barba e capelli, vedendo bruciare la sinagoga di cui era il rabbino. Sarà lui a guidarli verso il Kremlino. E qui un’osservazione curiosa di Adrien: “Non posso ricordarmi senza sorridere il fatto che lui, in mezzo a un simile disastro, ci domandava se avessimo niente da vendere o da cambiare”. Al riguardo un particolare interessante: in molte delle opere che parlano della ritirata dell’Armata francese in Russia vengono citati mercanti ( in genere juifs) che comprano / vendono dai/ai soldati francesi secondo le spietate leggi della domanda/offerta, leggi dove il prezzo è diverso se è il soldato che vuole vendere qualche parte ingombrante e superflua del bottino mentre è a Mosca o all’inizio della ritirata, o se è lo stesso soldato che nei momenti più disperati della ritirata cerca di acquistare a qualsiasi prezzo viveri spesso scadenti: business is business (e spesso pietà l’è morta..).

Chiusa la parentesi, torniamo al Kremlino raggiunto finalmente da Adrien e dai suoi uomini: trovano un gruppo di commilitoni, si mettono a mangiare insieme des bonnes vivandes et d’excellent vin, provviste trovate nelle case abbandonate, quando all’improvviso le fiamme divampano nelle vicinanze obbligando tutti a una fuga precipitosa lungo la Moskowa.

Ad un certo punto devono attraversare una zona in fiamme: ne escono accecati dalla cenere e fuliggine al punto che uno di loro “ fut obligé d’uriner sur un mouchoir” (fazzoletto) per lavarsi gli occhi. Il giorno 16 arriva l’ordine di fucilare sul posto chiunque venisse sorpreso a appiccare incendi.
Il giorno successivo (17 settembre) cessa il saccheggio disordinato sostituito da una ricerca più ordinata di viveri. Adrian viene inviato a fare provviste: ne trova, compresi due piccoli carri su cui caricarle.

Tralasciamo altre “avventure” moscovite, caccia agli incendiari, pericoli nell’attraversare quartieri in fiamme, scontri con gruppi di armati nei quali fra l’altro Adrian rivela la sua buona natura, lasciando andare, per es., dei russi presi prigionieri.
Adrien viene poi acquartierato, con altri sottufficiali, in una ricca dimora. Entrati sentono un brusio: spalancano una porta e.. sorpresa… deux femmes che alla vista dei soldati corrono a rifugiarsi in un’altra stanza. Adrian entra, le due donne (due sorelle), intuite le sue non cattive intenzioni, si tranquillizzano. Lui a cenni chiede da mangiare, loro capiscono e gli portano cetrioli, cipolle, pesce salato, un po’ di birra ma niente pane. Non proprio una pranzo luculliano, che viene però salvato quando una delle due sorelle arriva con una bottiglia di genièvre de Danzig, in pratica liquore di ginepro. L’atmosfera si rilassa e en moins d’une demi-heure la bottiglia è vuota perché mes deux Moscovites buvaient mieux que moi. Adrien si stabilisce lì con un suo amico. Non siate maliziosi, nessun secondo fine licenzioso: “dato che il caso ci aveva procurato due dame moscovite, certo loro avrebbero trovato molto onorevole lavare e rammendare i nostri vestiti”. Le due dame, tramutate forse obtorto collo, in lavandaie/rammendatrici, accettano: una tranquilla protezione val bene qualche bucato.

Siamo arrivati al 21 settembre. Adrien e i suoi commilitoni, previdenti, organizzano il loro rifugio e un’abbondante provvista di vini: “Nous avions en magasin, pour passer l'hiver, sept grandes caisses de vin de Champagne mousseux, beaucoup de vin d' Espagne, du porto; nous étions possesseurs de bouteilles de rhum de la Jamaïque »: questo per i liquidi, il solido era rappresentato da plus de cent gros pains de sucre, maiale, e qualche sacco di farina: e tutto questo per 6 sottoufficiali, due donne e un cuciniere che nel frattempo avevano raccattato in giro. Tutto “per passare l’inverno”, pensavano.

Ma l’inverno l’avrebbero passato in ben altro modo, e senza vini e liquori,

Alla sera, quando il sergente Boulogne deve fare il contrappello, mancano 18 uomini, imboscati chissà dove. Rientreranno più tardi, carichi di bottino: con grande faccia tosta “mi chiesero di poter fare ancora due altri viaggi, io gli diedi il permesso: bisogna sapere che a noi sottufficiali spettava un diritto del 20 per cento”
Due giorni dopo, siamo al 24, visita al Kremlino per vedere la famosa campana (v. https://it.wikipedia.org/wiki/Campana_dello_Zar). Lì Adrien vede una jeune et jolie personne, una giovane e bella ragazza di una famiglia molto importante , che però “fece la follia di attaccarsi ad un ufficiale superiore dell’armata e una ancora più grande di seguirlo, poi, nella ritirata: così morirà di miseria, fame e di freddo come tante altre". Non sarà l’unica donna moscovita (o straniera resistente a Mosca) che vorrà poi seguire l’armata nella ritirata: quelle che dureranno di più, finiranno in gran parte la loro odissea al passaggio della Beresina

Il giorno successivo Adrien, che non mancava certo d’iniziativa, vuole approfittare delle ricche vesti di ogni tipo che i soldati prendevano nelle case vuote per… dare un ballo in maschera nei “suoi alloggi”, con tanto di musica di flauto e tamburi. Alla festa, cui partecipa anche la vivandiera mère Dubois, il centro della scena viene preso… dalle due dame/lavandaie che, vestite da marchese francesi, “saltano come delle tartare, andando a destra e sinistra, agitando braccia e gambe, cadendo sul di dietro, alzandosi e ricadendo ancora: si sarebbe detto che avessero il diavolo in corpo”. Anche il tamburo si lascia prendere dall’atmosfera e…suona la carica”.

All’uscita, la ronda arresterà mère Dubois presa per una ricca moscovita per le vesti sontuose che aveva indossato. E il nostro Adrien dovrà intervenire per ottenerne la liberazione.

Una bella vita, quindi, un mese di relativa tranquillità e cibo abbondante fino al 18 ottobre.

La Ritirata
Diamo la parola al nostro sergente:
Siamo a Mosca: “La sera del 18 ottobre, mentre io e parecchi sottufficiali eravamo sdraiati come dei pascià su delle pelli d’ermellini, zibellino, leone, orso e su altri tappeti non meno preziosi, fumando con pipe di lusso il tabacco à la rose des Indes, e mentre un punch monstre al rhum della Giamaica bolliva in mezzo a noi in un grande vaso d’argento di un boyardo russo, mentre facevamo fondere un enorme pan di zucchero sostenuto sopra il vaso da due baionette russe (..) mentre facevamo le nostre promesse di fedeltà alle Mongole, Cinesi e Indiane, intendemmo un gran rumore nel salone dove erano coricati i soldati della compagnia". Era arrivato l’ordine di tenersi pronti a partire.
L’indomani "facemmo provvista di liquidi che mettemmo, come il vaso d’argento, sulla carretta della nostra cantiniera, la mère Dubois. Alla sera eravamo già fuori di Mosca”.
L'itinerario della ritirata:
in rosso i francesi, in verde i russi


Inizia la ritirata Bourgogne, novello Robinson Crusoe, passa in rassegna il suo equipaggiamento e il suo bottino moscovita
Revue de mon sac (contenuto del mio sacco).
Parecchie libbre di zucchero, del riso, un po’ di biscotto, mezza bottiglia di liquore, le costume d’une femme chinoise en étoffe de soie, tissée d’or et d’argent, diversi oggetti di fantasia in oro e argento tra i quali un pezzo della croce del grande Ivan ( si trattava della gigantesca croce che sormontava la cattedrale del Kremlino) che era d’argento dorato che mi era stato donato da uno della compagnia che era stato comandato di corvée per staccarla. C’era anche la mia grande uniforme, un cappotto da donna di color noisette e in velluto verde che mi serviva per cavalcare, due quadri in argento di un piede per 8 pollici con i personaggi in rilievo, uno raffigurava il giudizio di Paride, l’altro Nettuno su un carro a forma di conchiglia tirato da cavalli marini. Inoltre parecchi medaglioni e una decorazione di un principe russo arricchita da brillanti: tutti oggetti trovati nelle cantine delle case distrutte dagli incendi. Indosso avevo camicia, gilet di seta gialla imbottito con ovatta che avevo fatto io stesso con la sottana di una donna e sopra tutto un grande colletto doppio in pelo d’ermellino (Adrian non lo sa ancora, ma gli serviranno più dell’oro e dell’argento) . Inoltre un tascapane appeso sul dorso con una largo galon d’argento contenente parecchi oggetti tra i quali un Cristo in argento e un piccolo vaso di porcellana di Cina: sono gli unici due oggetti scappati al naufragio. Poi le armi e 60 cartucce nella giberna. Aggiungete la salute, l’allegria, la buona volontà e la speranza di presentare i miei omaggi alle dame mongole, cinesi ed indiane e avrete un’idea del serg. Velite della Guardia Imperiale.
Il 30 ottobre ebbe la fortuna d’acquistare da un soldato una pelle d’orso, che lui aveva “ ramasèe” da una vettura fuori uso (e sarà questa la cosa più utile..). Lo stesso giorno "la nostra cantiniera perdette il suo carro con i nostri viveri e il grande vaso d’argento”.

Il 19 ottobre l’Armata parte: inizia la ritirata, sullo stesso itinerario percorso all’andata, attraverso un territorio ormai devastato e privo di risorse.
“Avanzavano su quattro file su una lunghezza di più di una lega “(4 Km.) E’ un’armata europea quella che si mette in cammino sulla strada per Kaluga: “ Si sentiva parlare francese, tedesco, spagnolo, italiano, portoghese (..) i cantinieri con le loro donne e figli piangenti”. A tarda notte, primo bivacco in un bosco, molto diverso dal comodo alloggio lasciato a Mosca. Al mattino altro incontro col convoglio che aveva proceduto nella notte: già ci sono le prime rotture dei carri, altri si bloccano perché le ruote affondano nella sabbia: “si sente gridare in francese, imprecare in tedesco, invocare Dio in italiano e la Santa Vergine in spagnolo”.

All’improvviso colpi di fucile: è il primo attacco des partisans, i partigiani, che saranno un incubo costante, assieme ai cosacchi, per tutta la ritirata, le prime vittime, parecchi lancieri e “étendue à terre, sur le dos, une jolie femme, morts de saissement” (freddo? Paura?).

Attacco di cosacchi

Il 21 altro attacco dei cosacchi, respinti a cannonate, il 22 marcia sotto la pioggia, il 24 nei pressi di Kaluga il Corpo Italiano del principe Eugenio rompe il primo sbarramento tentato dai russi. Il 25 gli squadroni della Guardia, col nostro Adrien, liberano Napoleone, spintosi imprudentemente allo scoperto, da un attacco di 6000 cosacchi. Nel caos dello scontro Adrien riesce a isolare un episodio di “fuoco amico”: uno degli ufficiali’ordinanza vicini a Napoleone, dopo aver colpito un cosacco, persa la spada, si impadronisce della lancia di un cosacco. Un granatiere a cavallo della Guardia lo scambia per un nemico e lo ferisce. Accortosi dell’errore, in preda alla disperazione, si butta in mezzo ai nemici menando colpi all’impazzata: “tout fuit devant lui. Dopo averne uccisi parecchi, non avendo potuto farsi uccidere, rientra solo e coperto di sangue domandando notizie dell’ufficiale che aveva ferito” (che sopravvivrà).

Il 28 la lunghissima colonna arriva dove si era combattuta 52 giorni prima la terribile battaglia di Borodino”. I soldati sfilano in quel champ de carnage tout couvert de morts : « si vedevano uscire da terra gambe, braccia, teste, quasi tutti cadaveri di russi (..) ma anche dei nostri che, pur seppelliti, erano stati scoperti dalla pioggia”. Fra le file si diffonde la voce che era stato trovato ancora vivo un granatiere francese ferito, sopravvissuto “nella carcassa di un cavallo della cui carne si era nutrito”.
Intanto il cibo comincia a scarseggiare, ci si nutre di carne di cavallo, la ritirata acquista i connotati della tragedia. Napoleone ordina di caricare i feriti sui carri dei cantinieri, “ma molti di questi li abbandoneranno sulla strada per conservare il bottino che avevano preso a Mosca”.


Nella notte, la prima neve: era il 30 ottobre.
I carri, e i soldati, cominciano a svuotarsi del superfluo:” la strada era coperta di oggetti preziosi, quadri, candelabri, libri”, Voltaire, Rousseau, Buffon nutriranno forse lo spirito, ma non il corpo.

Il 1 novembre Adrien è nella retroguardia, col compito di rastrellare e spingere in avanti i soldati che restavano indietro, il 2 raccolgono alcuni feriti e malati: quando i carri sono pieni, gli altri sono abbandonati.
Il 4 novembre la retroguardia di Adrien è staccata di 8 km. dal grosso. Quando finalmente raggiungono un villaggio, lo trovano bruciato.

Una nuova fragile vita
Il 5 novembre un avvenimento veramente inaspettato: la cantiniera, Mme Dubois, la moglie del barbiere della nostra compagnia, “mentre la neve cadeva a in un freddo di 20 gradi partorisce un bel bambino”, il colonnello del reggimento le offre il suo mantello e le presta il cavallo, il chirurgo non si risparmia, due morti forniscono due cappotti, tutto finisce bene, tanto più che i soldati uccidono un orso bianco “che fu subito mangiato”.

La fame
Il 6 novembre, mentre cadono grossi fiocchi di neve, Adrien sento profumo di pane. E’ un soldato che nasconde una galletta sotto la pelliccia. Per 5 franchi Adrien riesce a comprarlo ma mentre sta per addentarlo “i miei amici mi corrono addosso come dei pazzi e me lo strappano di mano. Me ne resta solo un pezzetto, quello che stringevo fra le dita (..) ormai non si aveva più amici, ci si guardava l’un l’altro senza fidarsi, chi aveva ancora un po’ di viveri si nascondeva per mangiarli” .
Anche Adrien, deve fare i conti con l’istinto di sopravvivenza, quando, un po’ con le buone un po’ con le minacce, riesce a comprare per 15 franchi …7 patate cotte: “facevo conto che con loro, mangiandone due per giorno con un pezzo di carne di cavallo, avrei potuto sopravvivere tre giorni”, patate che lui terrà ben nascoste, mangiandone una per volta senza farsi vedere da nessuno, non c’erano più amici, ma solo l’istinto della sopravvivenza. Quella notte, coricato nella neve sulla sua pelle d’orso, vicino ad un fuoco,“ mi svegliavo più volte e infilavo la mano nel mio sacco per contare le mie patate” . Ma quando, nascosto in un bosco, cercherà di mangiarne una, i suoi denti scivoleranno sulla patata diventata dura come una pietra. I suoi compagni se ne accorgono, gliele prendono con la forza, le mettono vicino al fuoco per farle sgelare “ma esse si sciolsero come del ghiaccio”
Al mattino, quando suona la diana, molti non si alzano più.

All’improvviso un grido di dolore: mére Dubois, la vivandiera, “aveva approfittato di quel momento per allattare il bimbo nato il giorno prima ma son enfant etait mort et aussi dur que du bois”, morto e duro come un pezzo di legno. E così in quello scenario di disperazione, una scena quasi allucinante: “si affida il cadavere ad uno zappatore che si allontana di qualche passo con il padre del bimbo, con l’ascia scava un buco nella neve mentre il padre in ginocchio tiene il suo bimbo fra le braccia. Poi viene posto nella sua tomba, viene ricoperta. E tutto è finito”.

Sarebbe forse inutile riassumere tutti i piccoli particolari che costellano le memorie di Bourgogne durante la ritirata, e che ricordano tanto l’analoga ritirata degli alpini italiani nella stessa Russia 131 anni dopo (nella quale morì un mio zio, alpino della cuneense, medaglia d’argento alla memoria: v. http://uomini-in-guerra.blogspot.com/2020/02/lettere-dalla-russia.html#more; leggere il libro di Bourgogne è per me come vedere la sua tragedia): le notti al gelo, la corsa quando si vedeva qualche capanna miracolosamente intatta per arrivare primi, la lotta per un posto, per un pezzo di pane o di carne di cavallo, sempre che lo stesso non si fosse già congelato, altrimenti ci voleva l’ascia) la ricerca di legna per accendere un piccol fuoco, lo stillicidio degli attacchi dei cosacchi e dei partigiani, gli scontri feroci e disperati ogni volta che i russi tentavano di sbarrare la strada, gli amici che diventano rivali.

Prendiamo qualcosa qua e là, ricordandoci che stiamo raccontando di una tragedia

L’incendio dell’isba
Mi allargo un poco su questo episodio perché me ne ricorda altri uguali durante la ritirata degli alpini in Russia del 1943.

E’ notte, una gelida notte. Adrien e un suo collega vedono un grosso magazzino in lontananza: si precipitano “per vedere se c’era la possibilità di arrivarci per primi”, ma era già piena di ufficiali, soldati e cavalli. Impossibile entrare.
Intanto la colonna va avanti.
Adrien e l’amico decidono di passare la notte “sotto il ventre dei cavalli che erano attaccati davanti alle porte”, porte che altri cercavano di portare via per bruciarle o farsene un riparo. Intanto dentro avevano acceso dei fuochi. In breve si sviluppò un incendio. Un uscita era sbarrata dai cavalli che si erano imbizzarriti. Adrian e l’amico cercano di aprirne un’altra, ma era sbarrata dall’interno. “Allora noi fummo testimoni di una scena difficile da descrivere (..) si udivano urla sorde e disperate, cercarono di aprire un passaggio dal tetto, ma l’aria entrata dal buco alimentò le fiamme (..) si vedevano soldati mezzi bruciati, i vestiti in fuoco, le teste senza capelli (..) dalla nostra parte poterono essere salvati in sette sfondando una tavola, tutti con le mani bruciate o peggio, ( ..) altri su buttavano giù dal tetto, mezzi bruciati, gridando di essere finiti a fucilate”.
Ma l’orrore non è finito: accorrono altri soldati, si scaldano al fuoco dell’incendio, lo usano per far cuocere pezzi di carne di cavallo sulla punta delle baionette. Circolava il commento che l’incendio fosse “une permission de Dieu “ perché quelli che si erano messi in quel granaio “erano i più ricchi dell’Armata, quelli che a Mosca avevano trovato più diamanti, oro e argento”.
La ritirata continua.

La vettura rossa
Era i 9 novembre .
Adrien racconta di una vettura rossa, che da giorni seguiva l’Armata. Dentro c’era una donna, probabilmente vedova, con due ragazze di 15 e 17 anni. Era una famiglia residente a Mosca ma di origine francese, “ che aveva ceduto all’invito di un ufficiale superiore della Guardia a lasciarsi condurre in Francia”. Pochi giorni dopo fu visto l’ufficiale superiore “avvicinarsi alla vettura e uscirne tenendo tra le braccia un cadavere”: era una delle ragazze, “ancora bella, malgrado la sua magrezza”.. Adrien si affaccia all’interno della carrozza. Anche le altre due erano morte: una stessa buca, scavata dagli zappatori nella neve, accolse i tre corpi. L’ufficiale piangeva: “infine a metà gennaio, quando noi arrivammo a Elbingen, ( ormai fuori dalla Russia, in Renania) il mourut de chagrin”.

Nella notte, tempesta di vento e neve. Al mattino solo piccoli rialzi nella neve indicavano il corpo di un caduto nella tormenta.
Si incomincia ad abbandonare i primi cannoni, che uomini e cavalli esausti non riescono a trascinare sulle salite coperte di neve e ghiaccio.
La tragedia mette in mostra il meglio e il peggio: c’erano soldati che sorreggevano loro commilitoni stremati, c’era chi spogliava morti e morenti: “Il faut dire aussi que si, dans cette campagne désastreuse, il s'est commis des actes infâmes, il s'est aussi fait des traits d'humanité qui nous honorent, car j'ai vu des soldats porter, pendant plusieurs jours, sur leurs épaules, un officier blessé »

I tagliagola
Il 10 novembre Adrien arriva a Smolensk, o meglio, a quello che ne rimaneva dopo la battaglia dell’andata : tutte le case in legno bruciate, poche ancora in piedi fra quelle in pietra.
L’armata si sta disgregando, anche Adrien nella notte ha perso il contatto coi suoi. Procedendo nella totale oscurità, cade in una cantina sotterranea di cui la neve aveva mascherato l’esistenza.

All’interno trova un fuoco acceso e diversi individui che, vista la sua divisa della Guardia, lo vogliono cacciare. Dai frammenti di discorsi, e dalla quantità di vestiti diversi e bagagli svuotati che vede ammucchiati, in breve Adrien capisce che si tratta di un gruppo di disertori, coupe gorge, li chiama, che nella notte andavano in giro fra i soldati esausti, spogliando morti e moribondi, rubando dove potevano. Incomincia a temere per la propria incolumità. Nel gruppo scorge anche due donne. Una gli si avvicina e, senza farsi udire, lo esorta a andarsene fin che poteva.
E’ quello che Adrien fa.
Uscito, gira nell’oscurità finché, all’alba, riesce a ritrovare alcuni dei suoi uomini. Ne raccoglie una manciata e cerca di ritrovare la cantina per”pareggiare i conti”. Trova la cantina, ma ormai vuota.
Tornerà così fra i suoi dopo aver incontrato un suo vecchio commilitone che gli dice che il suo reggimento si era ridotto a 33 uomini: ma, pieno d’orgoglio, il lui monstrait l’aigle che avevano salvato.

Un pranzo delizioso
Lasciate le rovine di Smolensk, (14 novembre) Adrien con un suo amico procede nel bosco fuori dalla strada, scavalcando i corpi di chi non ce l’aveva fatta, orami solo monticelli di neve, per tentare di raggiungere il suo reparto superando l’ interminabile colonna di soldati, carri, carrette etc.

Incontrano un soldato “che stava facendo fondere della neve in una marmitta per cuocere fegato e cuore di un cavallo. (..) Ci disse che non aveva potuto tagliare la carne perché era congelata: con la baionetta aveva fatto un buco per sventrarlo (..) Noi avevamo riso e semola”. In breve mettono in comune pignatta (in altre opere sulla ritirata ho letto di soldati che si erano salvati… solo perché avevano una pentola..) fegato, cuore, riso e semola per fare “una zuppa che mangiammo dopo averla salata… con zucchero non volendo salarla, in mancanza di sale, con la polvere”.

Le pays du diable, l’ufficiale cruel

Il 15 battaglia a Krasnoy, dove viene impegnata anche la Guardia. Il reparto di Adrien “assale i russi a passo di carica, entrammo nel loro campo dove facemmo un carnage affreux a colpi di baionetta (..) Russi, Francesi, erano gli uni sugli altri, nella neve, uccidendosi a bruciapelo”. Una vera carneficina, in cui Adrien si salva solo perché il fucile di un russo fa cilecca.
Nei due giorni seguenti continui combattimenti coi russi. Adrien trova comunque il tempo di darci il “ritratto” di un ufficiale francese, “ ***, le plus méchant et le plus cruel que j’aie jamais connu” che “faceva il male per il piacere di farlo”: nel reggimento non c’era nessuno che “non avrebbe voluto vederlo tolto di mezzo da una palla e non aveva altro nome che Pierre le Cruel“. Pochi giorni dopo, una cannonata gli sfracellò entrambe le gambe: chiederà invano che qualcuno lo finisca con un colpo di pistola.
Alla fine i francesi riusciranno a rompere lo sbarramento russo, ma le perdite furono terribili: interi reggimenti furono inviati contro i cannoni russi, altri chiusi in quadrato furono sommersi dalla cavalleria.

Nelle memorie di Bourgogne c’è anche lo spazio per avventure meno terribili, come quando racconta di un Dragone della Guardia che, di notte, indossato il casco di un corazziere russo, era penetrato nel campo russo alla ricerca di viveri tornano poi con una balla di paglia (preziosa: i cavalli non andavano…a benzina), un po’ di farina e..un prigioniero: “non faccio questo, mi disse, per me, ma per il mio cavallo, perché se io salvo lui, lui salverà me”. Entrambi, cavallo e cavaliere, torneranno a casa, ma il cavallo sarà ucciso a Waterloo

18 novembre : questo è le pays du diable, car l’enfer est partout : dei 35000 uomini della Guardia non ne sono rimasti più che 7-8000.

Gli uomini arrivano in un villaggio chiamato Orcha: qui trovano un equipage de pont, un convoglio di barche per costruire ponti galleggianti: c’è bisogno di cavalli per tirare i cannoni e vengono presi quelli dei ponti: “une fatalitè extraordinaire” e con terribili conseguenze, quando si tratterà di attraversare la Beresina.
Il giorno dopo, il 20, arriva il Maresciallo Ney, lasciato in retroguardia e che si credeva perduto: dei 70000 uomini non gliene restavano che 2-3000.

22 novembre: je prende femme
Il 22 novembre, mentre attraversano il villaggio di Toloczin, Adrien vede una donna, con un capotto da soldato, che lo fissa attentamente: la sua pelliccia d’orso lo rendeva inconfondibile. Adrien la riconosce: era la donna che nella famosa cantina l’aveva consigliato ad andarsene prima che fosse troppo tardi. Racconta che in pratica era divenuta prigioniera di quei coupe gorge, che la usavano come lavandaia/rammendatrice (!). Il loro progetto era di mettersi in coda alla colonna, travestiti da cosacchi, per meglio spogliare i loro camerati che restavano indietro. Quanto a lei, era uscita per cercare acqua, erano arrivati i russi che avevano ucciso o catturato i suoi “carcerieri” che, in precedenza, avevano venduto tutto il loro bottino a un juif.
Poi, raccontato che suo marito era stato ucciso pochi giorni prima, la donna chiede a Adrien se poteva restare con lui: lei avrebbe avuto cura di me. Adrien accetta, “senza pensare alla figura che avrei fatto quando fossi arrivato al reggimento avec ma femme!”. Ma la perderà dopo poco tempo, risucchiata nel torrente di tante migliaia di uomini.

Il vento del nord
Adrien perde uno dopo l’altro anche tutti i suoi amici, uccisi, malati, rimasti indietro, caricati su carri che si sarebbero sfasciati di lì a poco lasciandoli sulla neve: e non posso non pensare alla ritirata dalla Russia dei nostri alpini e alle loro slitte tirate dai muli e carichi di feriti e malati.
“Il vento del nord aveva raddoppiato la sua furia, avevo perso di vista i miei camerati, i soldati si trascinavano penosamente con sforzi sovrumani per raggiungere la colonna (..) non avevano la forza per parlare (..) alcuni cadevano morenti per non più rialzarsi (..), la neve mi impediva di vedere la direzione del mio cammino, i cadaveri sulla strada mi servivano da guida (..) il sonno cominciava a vincermi, le mie gambe non potevano più sostenermi, senza il freddo della neve che mi risvegliava, io mi sarei lascito andare (..) uomini e cavalli morti sbarravano la strada e non avevo più la forza di superarli”. Adrien cerca di strappare un po’ di carne da un cavallo morto, ma è dura come una pietra. Riesce a prendere qualche frammento di ghiaccio intriso del sangue del cavallo. Con uno di questo frammenti cercherà, inutilmente, di rianimare un soldato morente trovato più avanti. Avanti, sempre avanti, marcia o crepa anche qui, “il fucile sotto il braccio, due tascapani incrociati, la sciabola e un’ascia alla cintola, un frammento di ghiaccio insanguinato in bocca, le mani infilate nei pantaloni”.

Ritrova un amico
In quella notte tremenda Adrien trova, vicino ad un cassone abbandonato, i resti di un fuoco con ancora qualche carbone acceso. Riesce a rianimarlo, prima strappando un frammento della sua camicia, poi raccogliendo qualche pezzetto di legno dal cassone sventrato. Trova anche un osso di cavallo con qualche briciola di carne. Un po’ ristorato e riscaldato, riesce a dormicchiare rintanato fra i resti del cassone. Ma è un sonno breve. Al risveglio Daniel ingrandisce il fuoco con le assi del cassone. All’incerta luce delle fiamme vede un’ombra che si avvicina, punta la sciabola: un francese, un suo vecchio commilitone.
Non sono più soli, possono farcela.
Riprendono il cammino. L’amico, Picard, ce l’ha con Napoleone: “ E’ una recluta!, 15 giorni a Mosca per riposarsi andavano bene, ma restarci 34 giorni per aspettare l’inverno, non lo riconosco più, C’est un conscrit!” E forse non aveva tutti i torti.

L’agguato ai cosacchi
Ma questi soldati gelati, affamati, sperduti nella tormenta non sono solo prede per i cosacchi: hanno ancora i denti, e mordono.
Daniel e Picard lasciano la strada e proseguono nel bosco che la costeggia: vogliono superare la lunga colonna di sbandati, carri, carrette, per raggiungere il loro reggimento più avanti.
Nel bosco vedono sette soldati attaccati da cosacchi. Fanno fuoco, un cosacco cade, gli altri, sorpresi si ritirano. I soldati francesi si riprendono e sparano ancora. Cadono da una parte e dall’altra, il ghiaccio che si rompe sopra un lago inghiotte uomini e cavalli. Prima che arrivino altri russi, Daniel e Picard si inoltrano nel bosco. Due cosacchi a cavallo vedono le impronte e, sperando in una facile preda, li seguono. Picard e Daniel se ne accorgono, si nascondono dietro gli alberi, aspettano, fanno fuoco: un cosacco cade, l’altro si ritira sparando. Picard viene ferito leggermente. Si avvicinano al caduto, lo frugano. Scoprono che sotto il cappotto indossava due divise francesi, e ancora sotto quattro giubbotti ripiegati: un giubbetto antiproiettile ante litteram. Nelle tasche trovano anche, oltre a franchi francesi, due orologi d’argento e cinque “croci d’onore”, tutti oggetti evidentemente presi a caduti francesi. Recuperano anche il suo cavallo con bisaccia, che contiene una per loro preziosissima bottiglia di acquavite.
In silenzio si allontanano nel bosco per cercare di raggiungere i loro compagni.
La marcia nella neve continua.

L’isba
In una radura in mezzo al bosco Adrien e Picart trovano una capanna ancora intatta: un rifugio dal gelo. Picard sta per forzare la porta, quando quella si apre e si affaccia “una vieille femme tenant à la main un moraceau de bois resineux en flamme”, una vecchia con in mano una torcia: Picard e Daniel si sforzano di fare una voce dolce e salutano in lingua polacca. Appare anche un vecchio che alla vista delle divise esclama: “Ah, ce sont des Francais; c’est bon”. Adrien precisa ”francesi  de la Garde de Napoleon”. Quando è chiaro che si tratta di francesi e non di russi, dall’oscurità emergono anche “deux autres femmes plus jeunes”. Per farla breve i nostri due “de la Garde” ottengono un’ospitalità non piena di paura ma cordiale: Daniel vede perfino curati i suoi piedi sanguinanti, Picard riceve cure alla ferita alla testa. Commossi, regalano alle due ragazze neuf mouchoirs des Indes tissés en soie, nove fazzoletti di seta che avevano trovato nella bisaccia del cosacco colpito. Il vecchio riceve uno dei due orologi e tutte le monete russe che i due possedevano.
La notte passa tranquilla, a parte ululati di lupi in lontananza.
Al mattino, 24 novembre, si presenta alla porta un juif conosciuto dalla famiglia che, “comme je m’y attendais, nous demandà si nous n’avions rien à vendre ou à changer”. Daniel gli chiede se, dietro compenso, poteva accompagnarli fino a Borisow. Accetta.

Inizia una marcia penosa e incerta attraverso i boschi. Ben presto perdono la direzione. Picard si rivela un buon scout: taglia un ramo e lo osserva attentamente: “Ecco la direzione che dobbiamo prendere, la corteccia dalla parte del nord è rossa e rugosa, verso sud è bianca e liscia”: qualcosa del genere funziona anche da noi, col muschio sul lato nord dei tronchi.
Finalmente, il mattino del 25 novembre, raggiungono un bivacco francese. Era un distaccamento di pontonieri che marciava verso la Beresina. Daniel non lo sa, ma dovrà a loro la salvezza sua e di molte altre migliaia di francesi.
Congedano la loro guida dopo averla correttamente pagata.
Finalmente raggiungono les vieux grenandiers del reggimento di Picard

Dietro i granatieri si trascina un a moltitudine di “più di trenta mila uomini, quasi tutti con mani o piedi gelati, in parte senza armi, molti marciavano appoggiati a dei bastoni. Generali, colonnelli, ufficiali, soldati, cavalieri, fantaccini di tutte le nazioni che formavano la nostra armata marciavano confusi, coperti di mantelli o pellicce bruciacchiate, inviluppati in coperte, pelli di montone, tutto quello che poteva servire contro il freddo. Marciavano senza lamentarsi, pronti ancora alla lotta se il nemico si fosse opposto al loro passaggio. (..) Infine passò anche la mia compagnia, e io potei riprendere il mio posto”.

la Beresina
Il 26 novembre Daniel è sulla riva della Beresina, un fiume della Bielorussia, 613 km., affluente del Dneper. Qui si consumò contemporaneamente la più importante vittoria tattica della ritirata e la più grande tragedia dell’armata.
Bisognava passare il fiume.
Non racconterò la drammatica vicenda della “battaglia della Beresina”, la trovate qui https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_della_Beresina.
Sotto il fuoco dei russi, quattrocento pontonieri del gen. Jean Baptiste Eblé, https://it.wikipedia.org/wiki/Jean_Baptiste_Ebl%C3%A9 , immersi fino al collo nell’acqua gelida (26 novembre!) con materiali di fortuna costruirono due ponti in legno. Moriranno quasi tutti, ma grazie a loro decine di migliaia di francesi potranno salvarsi. (v. http://www.wtj.com/articles/berezina/).
E la costruzione dei ponti merita una breve digressione.
Passaggio della Beresina

L’Armata francese aveva al suo seguito un reparto di pontieri dotato di un “treno” di carri con barconi, forge, strumenti. Durante la ritirata c’era bisogno di cavalli per trainare i cannoni. Napoleone aveva ordinato a Eblé di incendiare i traini per recuperare i cavalli. Disubbidendo, Eblé ne aveva conservato due con forge e carbone.
Arrivati sul fiume, mentre 1300 uomini del gen. Oudinot (tutti svizzeri) tenevano lontani i russi dall’altra sponda (dando origine ad una “leggenda” ancor oggi viva nel Canton Ticino) i genieri d Eblè smontarono le capanne del villaggio di Studienka, per recuperarne travi e tavole. Con queste, usando come staffe per fissarle i cerchioni dei carri tranciati e lavorati tramite le forge salvate, costruirono dei cavalletti da immergere nelle acque. Ovviamente il letto del fiume non era piano, le rive erano rialzate, ma il ponte doveva essere orizzontale. Sistemati i cavalletti nella acque gelide, dovevano essere fissati e collegati con travi ( di fortuna) sulle quali furono appoggiate le tavole, anch’esse di fortuna e a quanto pare solo appoggiate in quanto mancavano i chiodi per fissarle. Su queste sarebbero passati carri, cavalli, cannoni e migliaia di uomini. Tutto con materiali di fortuna, in acque gelide, sotto il fuoco dei russi. Eroismo e abilità allo stato puro.
E intorno, pochi reggimenti ancora ordinati e migliaia di sbandati
Costruzione dei cavalletti


Sulla riva del fiume Daniel descrive scene drammatiche : “Un vecchio soldato, i due galloni sulla manica indicavano almeno 15 anni di servizio, con la moglie cantiniera. Avevano perso tutto, anche due figli morti nella neve. A questa povera donna restava il marito morente. Era seduta nella neve, tenendo sulle sue ginocchia la testa del marito. Dietro al lei, appoggiata sulla spalla, c’era una giovane ragazza di 13 o 14 anni, bella come un angelo, la sola bambina che restava loro (..) le sue lacrime cadevano e andavano a congelarsi sul viso freddo del padre (..) Nessuno del reggimento del padre era lì a consolarle”.

Più avanti Daniel osserva: “Ho visto le donne sopportare con un coraggio ammirevole le pene e le privazioni che subivano. Potevano far vergognare certi uomini che non sapevano sopportare le avversità con coraggio e rassegnazione. Molte di queste donne soccombettero, altre caddero o furono spinte nella Beresina passando il ponte”.


Costruiti i ponti, alle due estremità furono piazzati dei picchetti che lasciavano passar solo i soldati inquadrati. La notte fra il 27 e 28 novembre i due ponti furono lasciati liberi ma “chose étonnante, nessuno si presentò per passare il ponte”: il freddo era troppo forte per lasciare i fuochi.

Alle 7 del mattino, ricorda Adrien, “mi alzai, presi le mie armi e senza dire nulla o avvertire nessuno, mi presentai alla testa del ponte e lo attraversai, assolutamente solo”: era sull’altra sponda.
Incominciano a cadere le prime cannonate dei russi. Allora “tutti si gettarono in folla sulle rive della Beresina per attraversare il ponte”.

E’ l’inizio della tragedia.

Alle 10 il secondo ponte, quello per la cavalleria e l’artiglieria, cede: “allora il disordine raddoppia, tutti si buttano sul primo, non c’è la possibilità di aprirsi un passaggio. Uomini, cavalli, vetture, cantinieri con mogli e figli, tutto è confuso e spezzato (..) la neve cadeva con forza, accompagnata da un vento freddo. Il disordine continuò tutto il giorno e tutta la notte, la Beresina trascinava, coi lastroni di ghiaccio, i cadaveri di uomini, cavalli, le vetture cariche di feriti che ostruivano il ponte e cadevano giù. Il disordine divenne ancora più grande quando, alle nove di sera, il maresciallo Victor (che comandava la retroguardia che tratteneva i russi) iniziò la sua ritirata attraversando il ponte su un monte di cadaveri”.

La notte fra il 28 e il 29 l’ultima possibilità i passare il ponte viene sprecata da chi ancora sostava sulla riva sinistra: troppo freddo per lasciare i fuochi.
Il 29, alle 7 del mattino, dalla riva destra si prepara il materiale per bruciare il ponte. Allora quanti non avevano approfittato della notte, si buttarono in massa verso il ponte: “io vidi un cantiniere che portava il figlio sulla testa, sua moglie era davanti, urlando di disperazione (..) una vettura con un ferito e altri uomini piomba nel fiume col cavallo (..) si mise il fuoco al ponte. Allora scene che non posso descrivere”.

Ma Adrien, febbricitante ma vivo, è passato, assieme ad altri 30mila soldati, 25000 rimasero sul terreno morti, feriti, prigionieri, con altre migliaia di sbandati.
Per uscire dalla Russia mancavano ancora oltre 300 kilometri e oltre 20 giorni di marcia penosa.
Il 9 dicembre, 53 giorni dopo aver lasciato Mosca, arrivano a Wilna (Vilnius, capitale della Lituania): in 10 giorni circa 250 km. A piedi, fra neve, gelo, fame.
La storia non insegna: altra guerra, stesso fiume, ancora un ponte


Wilna e il cimitero francese.
A Wilna, dove Adrien si ferma uno o forse 2 giorni (9-10 dic., 53esim giorno della ritirata), la situazione è un po’ meno tragica e i francesi possono prendersi qualche ora di riposo,
Ci sono dei magazzini, c’è una piccola guarnigione che non aveva partecipato all’avanzata (e ritirata) e viene fatta una scarsa distribuzione di cibo.
Qui Adrien racconta un episodio divertente (a posteriori).
Il sergente e un suo compagno possedevano diversi biglietti di banca da 100 rubli, del tutto inutili per lui, ma utili ( in futuro) agli abitanti. Si avvicinano due juifs alla ricerca di qualsiasi cosa i soldati francesi volessero/dovessero/potessero vendere o scambiare. I nostri amici propongono di acquistare a buon prezzo le loro banconote da 100 rubli in cambio di monete in argento. Si assiste così ad un’asta tra i due potenziali acquirenti: uno incomincia offendo 50 rubli in argento per ogni banconota da 100, l’altro rilancia a 55, e via via un’altalena di offerte finché uno se le aggiudica per 77. Conclusa la trattativa, al momento del pagamento i mercanti spariscono dietro una porta, Adrien e socio temono di essere fregati, alcuni decisi colpi col calcio del fucile contro la porta non sono sufficienti e allora “mon camerade chargea son arme” e ciò permette di portare a termine il pagamento con, riteniamo, soddisfazione reciproca

Daniel racconta (p. 238) un episodio: “ nella strada udii delle grida disperate: vidi una donna che piangeva su un cadavere sulla porta d’una casa. Lei mi fermò per chiedere aiuto, per farle restituire tutto ciò che le avevano preso: da ieri, mi disse, sono alloggiata in questa casa che vedete, di juifs. Mio marito era molto malato: nella notte, ci hanno preso tutto quello che noi avevamo e questa mattina sono uscita per andare a protestare. .Non ho potuto trovare nessun soccorso (..) Sono tornata per curare mio marito (..) ho trovato alla porta un cadavere (..) avevano approfittato che io ero uscita per assassinarlo: Signore, non mi abbandonate, venite con me”. Ma Daniel, debole e febbricitante, non può prestarle alcun aiuto.
Vilnius,  i resti dei francesi nella fossa comune

Uno o due giorni dopo l’Armata francese, sempre tallonata e fiancheggiata dai russi, lascia Wilna, ma molti uomini resteranno indietro: “ Plus de douze mille hommes de l'armée, officiers et soldats, qui ne pouvaient plus marcher, étaient restés au pouvoir de l'ennemi.

E a questo riguardo proprio a Wilna (oggi Vilnius, attuale capitale della Lituania) c’è una testimonianza puntuale, drammatica e sconvolgente: durante lo scavo per la costruzione di un edificio  nel 2001  è stata scoperta una fossa comunecon i resti di 3000 soldati dell'armata naopoleonica (1).
La fossa comune di Vilnius


Il tesoro dell’Armata. Finalmente la Polonia
Lasciata Wilna il 10 dicembre (53esimo giorno della ritirata) , i resti dell’armata diretti verso Kowno ( attualmente Kaunas, in Lituania) arrivano nei pressi di una montagna chiamata Ponary: lì Daniel descrive una scena impressionante: “ la strada, situata a metà del versante sinistro della montagna, era disseminata di una quantità di cassoni portanti più di 7 milioni di franchi in oro e argento”, abbandonati in quanto i cavalli – privi di ferri da ghiaccio- non riuscivano a salire l’erta gelata. Il maresciallo Ney, non potendo salvare il tesoro, cercò di salvarlo facendolo trasportare in sacchi dai soldati. Più avanti “quelli che erano caricati d’argento diminuivano il loro carico facendo cadere pezzi da 5 franchi”, altri cercavano di alleggerire il loro carico cercando, spesso senza successo, di passarlo a commilitoni. E mentre procedevano carichi, ogni tanto dovevano girarsi per sparare ai cosacchi che li tallonavano.
Ecco come la scena viene descritta da un ufficiale dell’Armata, il generale Philippe de Segur: “ Un cassone del tesoro che si era aperto, fu come un segnale: ognuno si precipita su queste vetture, le si spezza, si prendono gli oggetti più preziosi. I soldati della retroguardia, che passavano davanti a questo disordine, gettavano le loro armi per caricarsi del bottino, si accanivano così furiosamente da non sentire neppure il sibilo della palle che i Cosacchi che li tallonavano. Si disse anche che questi cosacchi si mescolarono a loro senza essere notati. Per qualche istante Francesi e Tartari, amici e nemici, furono confusi nella medesima avidità”. Come si può notare ci sono differenze tra la descrizione del nostro sergente e quella di de Segur: c’è però da dire che costui faceva parte dello Stato Maggiore ( e non della retroguardia) quindi è probabile che – a differenza del nostro sergente descriva scene raccontate e non vissute. Tra l’altro leggendo le memorie lasciate da ufficiali superiori (per es., oltre a questa quella del gen. Caulaincourt, duc de Vicence, grand écuyer de l’Impereur si vede come anche durante la ritirata le loro condizioni erano di gran lunga migliori di quelle dei poveri soldatini (cosa del resto tutt’altro che inattesa..)

In ogni caso la zona del Ponary (in Lituania), dovrebbe essere interessante per gli appassionati di metal detector….

Era il 10 dicembre, il 53esimogiorno della ritirata. Per arrivare alla fine, il 1 gennaio, in Polonia, mancavano ancora 21 giorni.

L’agonia dell’Armata (il n’y en a plus ‘armée, non c’è più l’Armata, dirà dopo Wilna un soldato incontrato isolato) prosegue, come il penoso trascinarsi di Adrien.
In un bivacco isolato, dove un gruppo sostava intorno a un focherello stentato, Adrien viene accettato solo perché ha ancora una bottiglia di acquavite da far girare. Lì fa bollire l’ultimo pugno di riso “dans la bouilloire que un juif m’avait vendue": c’è la pentola, ma manca il cucchiaio, problema risolto versando il ltutto “sur le cul de mon shako”: in quella ritirata disperata perfino il possesso di una pentola poteva fare la differenza.

Adrien incontra un altro conosciuto, dall’italianissimo cognome di Rossi, i piedi congelati: “povera la madre mia, se tu potessi vedere come sono”, il suo lamento desolato. Procedono un po’ appaiati: si salverà, e Adrien lo incontrerà a Brest nel 1830, in un hotel e “ a mezzanotte eravamo ancora a tavola, a bere champagne in memoria di Napoleone”. Anche ad Adrien le mani gelate danno fastidio: fra l’altro non riesce a slacciarsi le bretelle dei pantaloni quando serviva (non avevano la cerniera…), così le abbandona sostituendole con un pezzo di stoffa usato come fascia,

La notte fra l’11 e il 12dicembre fortissimi dolori alle gambe prendono il nostro sergente. Teme di non poter più, l’indomani, procedere, e di cadere in mano ai russi: allora si nasconde le ultime monete d’oro che possedeva nei pezzi di pelle di montone che usava come fasce ai piedi, sperando che i russi non sarebbero andati a curiosare lì.

Il 13 dicembre il gruppetto di cui faceva parte deve scendere un ripidissimo pendio gelato: le baionette piantate nella neve gelata servono da ramponi. In quello stesso giorno altro incontro con un italiano ”un barbet, un Piemontais, il se nommait Faloppa”, conosciuto in Spagna. Cadrà nella neve dicendo ”non potremo mai uscire da questo paese del diavolo, è finita, non vedrò più la bella Italia”. Adrien lo aiuterà per tutta la giornata, pagando perfino un gruppo di paysans incontrati per farlo trasportare, su un fucile tenuto usato come sostegno, fino a Kowno. Lì però Faloppa, stremato, morirà nella notte, assistito da Adrien.

Più tardi un altro incontro con un altro italiano isolato, un milanese di nome Pelliccetti
Ma ci sono piccoli reparti ancora in ordine, gruppi di 40/50 uomini stretti intorno all’aquila del loro reggimento, che quando sentono spari alle spalle si mettono in riga, fronte al nemico, senza parlare, le armi pronte.

Tra tante scene di morte e desolazione, anche spazi tragicomici, come quando Adrien, caduto stremato in un fosso pieno di neve e non riuscendo ad alzarsi, chiede ad un granatiere di dargli una mano: ”volentieri, se le avessi”, risponde mostrandogli due moncherini insanguinati, o come quando deve abbassare i pantaloni ad un granatiere dalle mani congelate per.. permettergli di fare i suoi bisogni: ma poi per ritirarglieli su servirà l’aiuto di un terzo soldato.

Poi la ritirata continua con le solite scene di morte, eroismi, fame e disperazione.

Il 17, dopo aver corso il rischio di essere ingannati e derubati (p. 319-321) da due juifs che avevano ingaggiato e pagato per farsi trasportare su una slitta fino a Darkehmen (in Prussia Orientale) sono a Gumbinnen, anche questo villaggio della Prussia orientale (dove i tedeschi combatteranno nella I guerra mondiale mentre nella primavera del 1945 sarà teatro di un altro drammatico esodo della popolazione tedesca), il 18 a Wehlau (dove Adrien corre il rischio di essere strangolato da una femme qui avait pres de six pieds de haute et une vraie figure de Cosaque e che pretendeva prezzi esosissimi per aver ospitato lui e i suoi amici per la notte: alla fine devono piegarsi e pagare: il n’y avait pas à marchander, les Cosaques étaient proches, c’era poco da mercanteggiare, i Cosacchi erano vicini, il 19 a Instemburg, il 20, sempre tallonati dai Cosacchi, a Eylau.

Il 22, in un villaggio senza nome, un siparietto gustoso: una donna racconta a Adrien che in quel villaggio i francesi erano mal visti, soprattutto dai mariti, perché all’andata nel villaggio si erano fermati dei Cacciatori a cavallo della Guardia, in particolare uno “così bello, così giovane che tutte le donne del villaggio venivano sulla porta per vederlo. Un giorno il borgomastro lo sorprese che abbracciava sua moglie, così che il borgomastro picchiò la moglie, il Cacciatore a sua volta picchiò il borgomastro, de sorte que madame est grosse”: (p. 329) e nel villaggio altre tre donne erano nelle stessa condizioni: potenza della “fraternizzazione”.

Nel villaggio successivo, il 23 dicembre, i francesi sono accolti a pietrate e palle di neve.

Poi arrivano a Elbing, ormai in Polonia.
Lì Adrien viene ospitato in una bella casa, può fare finalmente un bagno caldo, farsi tagliare barba e capelli. Poi una lunga dormita in un comodo letto. Era il 24 dicembre. Ma in lontananza brontola ancora il cannone.
Il primo gennaio Adrien e i suoi amici lasciano Elbing, attraversano la Vistola gelata.

Dopo 75 giorni la ritirata era finita.
Adrien era ancora vivo.



APPENDICE
 Il tepore dell'amore nel gelo della steppa


In tutte le ritirate accade che dei soldati si perdono: è successo nella ritirata dell'ARMIR in Russia nel '43, sarà certamente successo anche nella ritirata della Grande Armée napoleonica.
A volte i fili della storia e della ricerca si intrecciano in modi davvero impensati.
Leggendo il libro di Saint Loup "Les Volontaires" (che ricorda le vicende della "Légion des Volontaires Français" in Russia a fianco dei tedeschi nel 1941) mi sono imbattuto in questa vicenda relativa appunto ai soldati della Grande Armée "sperduti" in Russia durante la ritirata.
 Nel libro in oggetto, infatti, il protagonista incontra, nel villaggio russo di Karinka (nei pressi di Baltulino, circondario di di Smolensk), luogo di passaggio dell'Armata napoleonica, una donna che spiegherà di essere la "Arriere-petite-fille", ovvero la pronipote/discendente di un soldato francese della Grande Armée napoleonica "persosi" lì con due commilitoni : "Egarés ou déserteurs, ils étaiént arrivés un soir a Katlinka pour y prendre femme, vivre et mourir dans une humble obeissance au rythme des travaux paysans et des jours" ( "Smarritisi o abbandonati, arrivarono una sera a Katlinka per trovarvi moglie, vivere e morire in umile obbedienza al ritmo delle giornate e del lavoro contadino").  La donna li porta poi a vedere in un bosco tre croci curate in una radura: il luogo di sepoltura dei tre ex soldati napoleonici, che non tornarono mai a casa ma forse trovarono lì la felicità.



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1) dal Web: "Vilnius, scopera una fossa comune del periodio naopoleonico .
“Una fossa comune fu scoperta verso la fine dell'autunno 2001 durante lavori di costruzione in un luogo già sede di caserme dell'Armata Rossa, presso la periferia nord di Vilnius (Verkiu Street, Siaures Miestelis Territory) (..) alcune osservazioni iniziali su oggetti ritrovati sulle uniformi (in particolare bottoni con disegni dell'Aquila Imperiale e numeri di reggimenti) portarono alla conclusione che questa fossa era riconducibile alla Grande Armata comandata da Napoleone I. (..) Ricerche storiche attribuirono rapidamente questa scoperta alla ritirata della Grande Armata che, partita da Mosca, giunse nel dicembre 1812 nella città di Vilnius, presidiata dalle truppe francesi..)
Al termine degli scavi, in una fossa di 40 x10 metri furono individuati resti umani appartenenti ad oltre tremila (!) individui:“ fu possibile accertare che 29 era il numero delle femmine sepolte nel sito, 18 le probabili femmine ( si tratta delle famose cantiniere o donne che avevano seguito l’armata in ritirata) 1883 i maschi, 22 i probabili maschi; mentre la determinazione del sesso dei restanti 1317 fu impossibile. Per quanto riguarda l'età, le osservazioni sul campo non hanno rivelato traccia di bambini in questa tomba comune, anche se alcuni scheletri possono essere attribuiti a individui piuttosto giovani, di meno di vent'anni (probabilmente tamburini) . La gran parte dei sepolti aveva una età compresa fra i 20 e i 30 anni”. Oggetti trovati fra i resti, in particolare bottoni francesi, fibbie, resti di divise, provano senza possibilità di equivoci che si tratta dei resti dei soldati napoleonici morti nella città e seppelliti poi dai russi in quella che era probabilmente una trincea. Diversi scheletri ono stati trovati raggomitolati, con le ginocchia piegate sul petto, forse morti mentre cercavano di ripararsi dal freddo in questo modo.

Alcuni esami dei resti ossei hanno evidenziato

alti valori di azoto probabilmente provenienti da stress alimentari come periodi prolungati di denutrizione.

Sono gli amici, i commilitoni, i compagni del nostro sergente Boulogne, quelli che non ce l’hanno fatta.
Qui potete trovare ulteriori informazioni
https://ndnews.it/it/crimine/644.html foto (articolo di Vilnius, Zoja Oskolkova)
Video
Qui un video della cerimonia rievocativa del rinvenimento tombe caduti francesi a Wiasma (battaglia del 3 novembre, v. https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Vjaz%27ma)
e qui la tomba di un generale
le foto di scheletri sono presi da qui

PS. Le "memorie" del srg. Bourgogne son state utilizzate come una delle fonti nel video "La Ritirata di Russia" (https://www.youtube.com/watch?v=Gx7b_ISGFqI)


Leonello Oliveri
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