Leonello Oliveri
Pontone armato “Faà di Bruno, G.M. 194”: forse
qualche savonese dei più anziani ricorda ancora questo nome e la tozza sagoma
di questa “batteria galleggiante “ armata con due poderosi cannoni da 381 e
quattro da 76 ancorata, dal ’43 al ’45, al molo sottoflutto del porto di
Savona. Era lunga 55 metri, larga 27 e stazzava 2797 tonn. Forse qualcuno
ricorda che il 25 aprile del ’45 fu trovato affondato al suo ancoraggio, dove restò, adagiato sul
basso fondale e con le sovrastrutture emergenti dall’acqua, fino al febbraio
del ’47 quando fu finalmente recuperato, trasportato nei cantieri di
demolizione di Vado e lì smantellato.
Quella
che avrebbe potuto essere una tragedia fu evitata grazie, così racconta un
reduce, all’atto coraggioso e responsabile di alcuni marò della Marina
Nazionale Repubblicana (quella della Repubblica Sociale di Mussolini, per
intenderci) che a rischio della loro vita riuscirono a far affondare il
pontone, ormai circondato dalle fiamme, evitando così una possibile esplosione.
I
due marò protagonisti del gesto si salvarono, ma altri loro compagni non ebbero
la stessa fortuna: alcuni marinai dell’equipaggio di questo pontone (poco più
che ragazzini, arruolatisi volontari nel febbraio del ’45) il 25 aprile
cercarono –forse ingenuamente- di tornarsene a casa loro in divisa. Arrivati a
Monesiglio -Cn- (dove pochi giorni prima erano stati fucilati 10 partigiani) furono catturati dai partigiani e passati per le armi.
Ma
ricostruiamo, per quanto possibile, la vicenda.
Il “Pontone
Armato G.M. 194”, nacque come “monitore
Faà di Bruno” nel 1915 dal Regio Arsenale di Venezia. Si trattava di un
pontone corazzato, una sorta di grossa chiatta dotata di motore e di
mediocrissime capacità marinare, costruita per sorreggere due grossi cannoni da
381/40, realizzati per una corazzata poi non impostata. In pratica si trattava
di una batteria galleggiante. Come armamento secondario disponeva anche di 4
cannoni da 76/40.
Il Pontone armato al momento della sistemazione dei cannoni |
Dopo
l’8 settembre passa sotto controllo tedesco che gli cambia il nome (diventa Biber)
e lo trasferisce appunto nel porto di Savona.
Qui trascorrerà i mesi terribili fino alla
fine della guerra, e qui incomincia la nostra storia.
La
nave fu messa nominalmente sotto il comando del ten. di vascello della
Kriegsmarine Viebering, ma l’equipaggio (130 uomini, nella regolamentare
uniforme della Marina Nazionale Repubblicana)) era esclusivamente italiano. I
tedeschi (50 uomini) fornivano solo l’armamento a due delle tre mitragliere da
20 mm. e la guardia ai cancelli.
Il
23 aprile ’45 la situazione precipitò. Quanto segue lo sappiamo grazie alla
testimonianza di un membro dell’equipaggio del GM 194, il capo di II
Classe Barisone, pubblicata alle pagine
649- 651 del I volume del libro “San Marco San Marco- Storia di una
divisione” di P. Baldrati e risalente al maggio del 1948. Sua, ovviamente, è la responsabilità
dell’esattezza di quanto riportato
Il capo di II
classe racconta che il 23 aprile il comandante riunì l’equipaggio lasciandolo
libero di scegliere se aggregarsi alla colonna tedesca che si sarebbe ritirata
verso il Po o cercare di raggiungere individualmente le proprie case. Una
decina di uomini aderì alla prima opzione, gli altri rimandarono la scelta.
Verso
le ore 17 il fatto che avrebbe potuto tramutarsi per Savona in una grave
sciagura. Ma diamo la parola al nostro testimone: “Verso le ore 17 andando a
bordo per la terza volta notammo altissime colonne di fumo nero e giunti in
vista della nave la vedemmo circondata di fiamme. Era successo che i tedeschi
destinati al porto avevano fatto saltare una piccola e vecchia nave per
ostruirne l’imboccatura. La nafta a bordo si era però incendiata e la nave
spinta dal vento si era avvicinata alla nostra che era ormeggiata a 40 metri dall’imboccatura
stessa. Facemmo notare al comandante che, allo scopo di evitare un disastro,
era necessario affondare la nostra nave” (era carica di esplosivi!,
n.d.A.). Avutane l’autorizzazione andai a bordo con il capo meccanico
Lacagnina per aprire gli allagamenti. Durante la nostra permanenza a bordo le
fiamme, che lambivano la nave da tutti i lati, incendiarono la passerella
togliendoci così la possibilità di tornare a terra. Dovemmo infatti saltare
sugli scogli bruciacchiandoci un po’ mani e
faccia. La nostra nave è stata
autoaffondata per evitare i danni che certamente avrebbe arrecato alla città di
Savona se le fiamme avessero fatto saltare in aria l’esplosivo esistente a
bordo. Quale Capo Deposito Munizioni posso fornire le cifre esatte.
Granate da 381/40: erano quelle presenti sul Faà di Bruno. Immaginiamo i danni che avrebbero potuto arrecare esplodendo |
- 96 proietti da 381
- 1600 cartocci granate da 76
- elementi di carica da 381 (4 per proietto ognuno da kg 45) pari a kg. 17.280.”
A
questi doveva aggiungersi il peso dell’esplosivo contenuto in ognuno dei 96
proiettili da 381 e nelle granate da 76.
Per
capire il pericolo corso dalla città basterà ricordare che pochi giorni dopo,
l’ 8 maggio, l’esplosione di un deposito munizioni abbandonato nella galleria
di Valloria provocò 43 morti e 26 feriti.
Il
nostro testimone fornisce anche informazioni interessanti circa la sorte del
porto di Savona: “Le distruzioni operate in porto da Pionieri germanici si
ridussero a 5 gru (danno comunque non indifferente). Tutti gli impianti industriali e di trasporto non furono invece distrutti o
danneggiati e ciò non fu merito dei partigiani, come fu detto in seguito, ma semplicemente
perché a nessuno venne in mente l’opportunità di far saltare gli Stabilimenti
ILVA, la funivia Savona-San Giuseppe ed ogni altro impianto. Né alcuno dettò
ordini in proposito”. Questa è, ovviamente,
la ricostruzione fatta dal ns. Capo di II classe.
La
testimonianza prosegue poi ricordando la sorte dell’equipaggio a guerra finita,
dopo il 25 aprile: “fra l’equipaggio della nave vi furono quattro vittime”. Tra
loro “3 ragazzini volontari (..) di Torino presentatisi
nel febbraio ’45 pieni di amor patrio e di entusiasmo. Dopo il 25 aprile non
pensando a ciò cui andavano incontro si misero in cammino per raggiungere la
loro città ma fermati dai partigiani vennero fucilati solo perché indossavano
una divisa. Mi spiace di non ricordare i nomi, solo di uno ricordo che il
cognome era Merola”.
C’è
voluto ben poco per ricostruire alcuni particolari di questa altra vicenda.
L’episodio è infatti ricordato, e nella sostanza confermato, da F. Sasso, Guerra
incivile, la verità sul’eccidio di Castelletto Uzzone e Monesiglio. Episodi di
lotta fratricida tra Liguria e Piemonte(1943-45), GRIFL 2003, pp. 129-130:
“Il 25 aprile cinque giovanissimi marò del Xa Mas (tre in realtà
della Marina Nazionale Repubblicana n.d.A.), presumibilmente appartenenti al
Pontone Armato di Savona, indossati abiti civili cercavano di raggiungere le
loro residenze in Piemonte. Giunti sfortunatamente a Monesiglio (dove pochi giorni prima erano stati fucilati 10 partigiani) vennero fermati
dai partigiani e, dopo essere stati identificati, vennero uccisi. Probabilmente
anche in questo caso entrò ancora in gioco il risentimento e il desiderio di
vendetta”.
E' bastato poi fare una veloce ricerca in internet per trovare un’ulteriore conferma e i nomi dei tre marò: il 25 aprile a Monesiglio furono fucilati dai partigiani, secondo i dati esistenti nell’elenco dei caduti della RSI, rintracciabile nel web, quattro marò della RSI: uno di 18 anni della X Mas e i tre marinai del Pontone Armato GM 194 ricordati dal nostro teste, rispettivamente di 18, 19 e 20 anni. Un quinto marò, anch’egli della Xa e non ancora diciottenne, fu fucilato- sempre a Monesiglio- il 30 aprile.
E
mentre sulle strade sconvolte e nelle città martoriate del nord Italia
sbocciavano - dopo oltre venti anni di una dittatura che aveva gettato l'Italia
in una guerra assurda e disastrosa- in
attesa di quelli della pace gli ultimi frutti avvelenati della resa dei conti e
della vendetta, nelle acque oleose del porto di Savona il relitto semisommerso
del G.M. 194 stava lì, reso ormai innocuo.
E ci sembra che l’atto coraggioso di chi, anche se dalla “parte sbagliata”, evitò probabilmente una grave esplosione, non debba essere dimenticato.
Ma dopo oltre 70 anni per chi ha combattuto ed e' morto "dalla parte sbagliata" spesso non c'e' posto neppure su una lapide di marmo..
E ci sembra che l’atto coraggioso di chi, anche se dalla “parte sbagliata”, evitò probabilmente una grave esplosione, non debba essere dimenticato.
Ma dopo oltre 70 anni per chi ha combattuto ed e' morto "dalla parte sbagliata" spesso non c'e' posto neppure su una lapide di marmo..
Leonello Oliveri
Propr. lett. riservata
Riprod. vietata