Leonello Oliveri
Plutarco,Vita di T. Gracco, 9):”Le fiere che vivono
in Italia
hanno una tana ed un covile dove rifugiarsi, coloro che per l’Italia
combattono e muoiono non posseggono
altro che l’aria e la luce: senza casa e senza stabile dimora vanno errando con
i loro figli e le loro donne. Mentono i vostri generali quando in battaglia
esortano i soldati a respingere il nemico in difesa delle tombe e dei templi:
nessuno di voi ha un altare di famiglia, un sepolcro degli avi, ma lottate e
morite per il lusso e la ricchezza di altri. Voi che siete i padroni del mondo
non avete di vostro neppure una zolla di terra”.
Cosa c’entrano
queste parole pronunziate dal Tribuno
della Plebe T. Gracco nel 133 a.C. con la I Guerra Mondiale? C’entrano, c’entrano….
************
“All'estremità del ponte c'erano ufficiali e carabinieri in piedi con le lampade tascabili (..) Quando
ci avvicinammo vidi un ufficiale
indicare un uomo nella colonna: un carabiniere lo seguì e venne fuori
tenendo l'uomo per il braccio (..). Mentre ci avvicinavamo si udirono degli
spari (..) C'erano quattro ufficiali in
piedi di fronte ad un uomo che aveva un carabiniere per parte (..) Altri
quattro carabinieri erano in piedi, appoggiati ai moschetti, vicino agli
ufficiali che interrogavano. Erano carabinieri con quei capelli grandi. (..)
"Perché non sei col tuo reggimento?(..)
Sei tu e la gente come te
che hanno permesso ai barbari di calpestare il sacro suolo della
patria". "Vi prego di scusarmi", disse il tenente colonnello.
"E' a causa di tradimenti come il tuo che abbiamo perduto il frutto della
vittoria" . "Vi siete mai trovato in una ritirata?" -
chiese il colonnello. "l' Italia
non dovrebbe mai ritirarsi". (..) Due carabinieri condussero il tenente
colonnello verso la riva del fiume (.. )
Non vidi la fucilazione ma udii gli
spari. Stavano interrogando un altro (..) Facevano in modo di essere occupati a
interrogare il prossimo mentre veniva fucilato quello che era stato interrogato
prima”
Forse qualcuno dei lettori
avrà riconosciuto queste righe. Sono, nella traduzione di F. Pivano (Oscar
Mondadori), quelle che Hemingway scrisse in Addio
alle Armi raccontando la ritirata di Caporetto, cui comunque lui,
volontario della ARC (American Red Cross)
sul fronte del Piave, non fu coinvolto essendo arrivato in Italia solo nel
maggio del '18.
Manifesto di propaganda italiano: che poi l'Austria (o la Germania) rappresentassero la barbarie... |
Negli ultimi anni alcune
pubblicazioni, ricordo soprattutto M. Pluviano e I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale Gaspari edit.,
Udine, 2004 (dalla quale sono tratte molte
delle citazioni e dei dati di questo post) e la ristampa del libro di
E. Forcella - A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della
prima guerra mondiale, Bari,
Laterza, 1998, hanno sollevato (o risollevato) il pesante
velo calato su un pagina dolorosa e terribile della nostra storia: quello delle
condanne a morte e fucilazioni di soldati italiani effettuate durante la I
Guerra mondiale. Si tratta infatti di un argomento non certo piacevole o
facile: basti dire che la pubblicazione di
Addio alle Armi di Hemingway, composto nel ’29 e subito tradotto
in molte lingue europee, fu proibita in Italia dal fascismo e gli italiani
poterono conoscerlo solo nel 1946. Ci sembra però utile, "in questi tempi di bellicosità diffusa e di
crescenti nazionalismi - come hanno opportunamente notato Pluviano e
Guerrini nella prima pagina del loro testo-
riflettere sulle aberrazioni cui conduce la guerra".
Secondo fonti penso
attendibili ([1]) 1061 sarebbero state le
condanne a morte emesse da tribunali regolari e straordinari italiani, di cui
750 ([2])
eseguite. Questo numero non tiene però
conto delle esecuzioni sommarie eseguite in zona di guerra da un ufficiale di fronte a casi di particolare gravità,
esecuzioni talvolta decise col metodo della
"decimazione" a prescindere dall'eventuale personale
responsabilità dei sorteggiati. La
ricerca di Pluviano e Guerrini ha
identificato circa 300 fucilati sul campo, che portano il totale dei
soldati italiani fucilati nella Grande Guerra "a oltre mille,
750 per condanne di tribunali, 300 senza processo per mano ( o per ordine) dei loro ufficiali" come scrive G. Ronchat a p. XIV nella
prefazione del libro citato. Si arriva così ad un totale di oltre 1000 fucilati
sui 600.000 caduti al fronte. Per fare
un confronto si può ricordare che negli altri eserciti i fucilati sarebbero
stati, secondo il medesimo autore (Pluviano p. XIII), 330 nell'esercito inglese
(che aveva una forza più o meno pari a quello italiano: a questi morti
dovrebbero però aggiungersi i 71 pacifisti deceduti secondo Pluviano -p. 257-
in carcere o nei campi di lavoro) e 600
in quello francese, che però secondo i dati di Roncat era il doppio di quello
italiano. Se i dati sono esatti ne deriva che le fucilazioni nell'esercito
italiano sono sia in assoluto sia percentualmente molto più numerose rispetto a
quanto verificatosi negli eserciti alleati. Considerato che come motivi dell'esecuzione erano quasi
sempre indicati diserzione, sbandamento,
rivolta, rifiuto di obbedienza, codardia, abbandono di posto, etc. ne consegue
che o il soldato italiano era meno coraggioso ed obbediente di quello alleato,
o che la "giustizia" militare
italiana era diciamo diversa o quantomeno formulata ed applicata in modo
diverso rispetto a quella alleata. Personalmente sul coraggio e spirito di
sacrifico del soldato italiano nella Prima Guerra come nella Seconda non
abbiamo dubbi.
Occorre comunque notare che
se l'Italia fu il paese che conobbe il
maggior numero di fucilati, fu anche quello che ebbe un'indagine ufficiale sulla condotta del conflitto ([3]) :
è quindi possibile che i dati disponibili siano per questo motivo più precisi
di quelli di altri paesi.
Ci sono inoltre due
elementi da tenere in considerazione. Il primo è l'oggettiva difficoltà
derivante da come era stata strategicamente impostata la guerra:
parafrasando Carl von Clausewitz
possiamo dire che attaccare l'Austria risalendo le Alpi era come sollevare un
fucile prendendolo per la baionetta. Accanto a questa c'era però, a nostro
avviso, un altro fatto: l'impreparazione, talvolta condita di supponenza, di
parte della casta militare negli alti quadri, rimasta - in certi casi- alla mentalità di Waterloo: forza bruta
e assalti all'arma bianca; solo che nel
'15 (1915!) dall'altra parte non c'erano più i quadrati di Wellington armati
con fucili ad avancarica (che comunque respinsero gli assalti della Guardia
napoleonica!), ma reticolati, trincee, mitragliatrici ed alta densità di
artiglieria a tiro rapido ([4]).
Per dare un'idea delle difficoltà insite nell'affrontare con la fanteria un fronte trincerato, difeso da reticolati e mitragliatrici, presentiamo alcuni disegni (tratti da Notes on the construction and equipement of trenches, a cura del War Departement- 1917) che ben illustrano cosa fosse un fronte trincerato, con cinque linee di trincee e reticolati per una profondità di quasi un kilometro
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A quanto mi risulta pochi
furono gli ufficiali superiori che ebbero il coraggio di criticare apertamente questa
tattica insensata opponendosi al massacro dei suoi soldati sul Carso: fra loro ricordo il cuneese gen. Giovanni
Airaldi, che ovviamente ebbe stroncata la carriera ([7]).
All'incapacità o difficoltà tecnica a valutare le
conseguenze dei nuovi armamenti (per altro equamente diffusa in molti degli
eserciti belligeranti) e il mutamento di
tattica che richiedevano, si univa talora quello che il giornale Il resto del Carlino (non certo
sospettabile di simpatie proletarie) definì nell'agosto del '19 come "l'equivoco fondamentale che esisteva tra i
nostri alti gradi e il personale più umile dell'esercito": una scarsa
considerazione nei confronti della truppa
alla "mancanza di coraggio" della quale vennero talora
imputati gli insuccessi. Ciò è particolarmente avvertibile nel comportamento
tenuto nei confronti dei soldati italiani
caduti prigionieri degli austriaci, spesso considerati in blocco come vili. G.
Ronchat, nella citata prefazione, ricorda che fra i 600.000 italiani
prigionieri degli austriaci si ebbero circa 100.000 morti, rispetto ai 20.000
morti francesi: la causa viene identificata dallo stesso autore (p. XIII) anche nel
" triste rifiuto di fornire ai
soldati italiani caduti prigionieri (..)
quel minimo di assistenza che ne avrebbe impedito la grande
mortalità".
Come è stato osservato, simili comportamenti segnarono forse «il punto più basso della condotta morale e professionale dei comandanti e del governo italiani nella Grande guerra» ([8]). E' certo un elemento che andrebbe approfondito.
Quando poi, dopo l’armistizio del 3 novembre, migliaia di ex prigionieri di guerra italiani in Austria ritornarono in patria, l’atteggiamento delle nostre autorità nei loro confronti fu sintomatico: considerati quasi disertori, anche sulla base delle versioni ufficiali circa le cause della rotta di Caporetto, ovviamente imputata allo scarso coraggio del fante, essi furono controllati e tenuti in disparte. Per loro furono creati addirittura alcuni appositi campi di concentramento. Solo in Emilia ne furono allestiti tre, nei quali 861 uomini morirono “a causa delle inadeguate condizioni igieniche e per la scarsità di cibo” ([9]).
Come è stato osservato, simili comportamenti segnarono forse «il punto più basso della condotta morale e professionale dei comandanti e del governo italiani nella Grande guerra» ([8]). E' certo un elemento che andrebbe approfondito.
Quando poi, dopo l’armistizio del 3 novembre, migliaia di ex prigionieri di guerra italiani in Austria ritornarono in patria, l’atteggiamento delle nostre autorità nei loro confronti fu sintomatico: considerati quasi disertori, anche sulla base delle versioni ufficiali circa le cause della rotta di Caporetto, ovviamente imputata allo scarso coraggio del fante, essi furono controllati e tenuti in disparte. Per loro furono creati addirittura alcuni appositi campi di concentramento. Solo in Emilia ne furono allestiti tre, nei quali 861 uomini morirono “a causa delle inadeguate condizioni igieniche e per la scarsità di cibo” ([9]).
Un esempio, della
trascuratezza
o impreparazione con la
quale gli alti comandi guardavano (o non guardavano) alle condizioni di vita dei
soldati è la vicenda delle maschere antigas con le quali si cercò di
affrontare questo insidioso pericolo: benché i gas fossero stati utilizzati in
guerra addirittura nel 1900 (quando gli inglesi usarono la lyddite -acido
picrico- contro i boeri e poi nel 1914 dai francesi (gas lacrimogeni) e
dai tedeschi a Ypres nell’aprile del 1915, ai soldati italiani furono dati
mezzi di difesa “artigianali” fino al 1916. Dopo il sanguinoso attacco
austriaco con i gas al San Michele (29 giugno 1916, 6500 caduti) furono
distribuite le maschere mod. 1916, dimostratesi poi – per es. il 24 ottobre
1917 a Plezzo- poco efficaci. Solo allora furono distribuite 800.000 maschere
francesi M2 (che i francesi avevano fin dall’aprile del ’16), e
solo nel giugno del ’18 vennero distribuiti gli Small Box Respirator, anch’essi in
dotazione agli gli inglesi fin dal 1916 ([10]). Niente maschere antigas efficaci, in compenso
qualche esemplare delle inutili corazze individuali Farina, pesanti e assolutamente
permeabili ai proiettili di mitragliatrici, e acquavite in abbondanza, specie
prima degli assalti
Una delle prime maschere "antigas" |
Un a corazza |
Solo dopo Caporetto lo
Stato Maggiore italiano fece qualcosa per quantomeno conoscere lo stato d'animo
e le condizioni di vita del soldato
italiano, con l'istituzione del "servizio
P"([11]), un'organizzazione di
propaganda, ma anche di assistenza, affidata a un migliaio di ufficiali di
complemento (e questo è indicativo), scelti tra coloro che nella vita
civile svolgevano attività intellettuali
(e questo è ancora più indicativo) con
il compito di migliorare le condizioni morali e materiali dei soldati. Ma ormai
per molti caduti era tardi.
I risultati di questa
visione tattica obsoleta e di questo scarso rispetto per la vita del
soldato furono ripetuti quanto inutili e
sanguinosi attacchi frontali all'arma
bianca contro reticolati e mitragliatrici, senza turni di riposo lontani dal fuoco. I caduti furono un
numero impressionante: 600 mila su sei milioni di uomini (parte dei quali
lontani dalla linea del fuoco), una autentica decimazione. Ai caduti si devono
aggiungere i feriti, circa un milione di cui quasi la metà rimasti invalidi per
il resto dei loro giorni. Per fare un confronto si può ricordare che nella II
G.M. le perdite di militari italiani, scaraventati su innumerevoli fronti (Francia,
Albania, Grecia, Iugoslavia, Africa, Russia, Mediterraneo) ammontarono a
"solo" 350.000 (circa): nella I, in poco più di tre anni, ci furono
600.000 morti su un fronte di soli 600 km.: un morto al metro!
Alla
lunga, dopo mesi di questo tormento in prima linea, qualche soldato cedeva, si
rifiutava di obbedire o di uscire, disertava.
E allora, sovente dalle retrovie,
arrivava inesorabile la punizione, spesso affidata a uomini che avevano più
familiarità con il retro del fronte che con
la prima linea.
L'Italia entrò nella I G.
M. non solo con una mentalità arretrata dal punto di vista tattico, ma anche
con una legislazione penale vecchia quasi di mezzo secolo. Il Codice Penale
Militare in uso era infatti quello promulgato il 28 novembre 1869, mentre il
Codice Penale Comune era, per così dire, più moderno, non prevedendo, per
esempio, la pena di morte. Il Codice Penale era inoltre affiancato da un
"Regolamento di Disciplina Militare" del 1872.
La procedura militare era
basata sul sistema “inquisitorio”, che tutela le ragioni dello Stato. Per fare
un confronto gioverà ricordare che il Codice di procedura penale militare
austriaco era invece “accusatorio” con
una maggior tutela dei diritti dell’individuo. In un sistema “inquisitorio”
"non è già più concepibile una
parità di ruolo tra accusa e difesa (..) Storicamente il sistema inquisitorio
divenne lo strumento non per accertare
se l'accusato fosse colpevole, ma per dimostrare che era colpevole"
([12]).
Allo scoppio della guerra il generale Cadorna emanò delle
direttive "che purtroppo non furono felici, né nel loro contenuto, né dal punto di
vista tattico" (Bianchi, p.11). In particolare la sua prima circolare all'Esercito del
19 maggio 1915 era dedicata alla
disciplina. Al punto 3 recitava ; "Nessuna
tolleranza, mai, per nessun motivo, sia lasciata impunita; la si colpisca anzi
con rigore esemplare".. ; (..) "la punizione intervenga pronta: l'immediatezza nel colpire riesce di
salutare esempio", (…): Il Comando Supremo “riterrà responsabili i comandanti delle
Grandi Unità (..) che si dimostrassero titubanti nell'assumere senza indugio
l'iniziativa di applicare, quando il caso non lo richieda, le estreme misure di
coercizione e di repressione” ([13]).
Chi occupava posti di
comando e responsabilità non doveva
quindi avere esitazioni, pena siluramenti, perdita di possibilità di carriera e
anche l'incorrere nel reato di disobbedienza.
Questa ruggente incitazione alla severità troverà talora volenterosi esecutori.
Le condanne a morte furono, spesso ma non sempre,
l'ultimo anello della catena dei processi di guerra: secondo i dati di Forcella - Monticone fra il 1915 e 1918 ci
furono 870.000 denunce: più della metà contro i renitenti, dei quali
però la stragrande maggioranza erano
renitenti perché emigrati. Le condanne furono
210.000 e 240.000 le assoluzioni. Il reato di diserzione è quello più
frequente, con quasi 190.000 denunce ([14]). Anche qui, per fare un confronto, possiamo
notare che durante la II G. Mondiale, dal giugno del '40 al settembre del '43,
ci furono solo 26000 disertori ([15]).
Nel settembre del 1919 fu promulgata un'amnistia che interessò,
oltre agli emigrati "regolarizzati", circa 370.000 casi.
Oltre ai fucilati, forse
20.000 persone (ma G. Ronchat p. XIV nota che
mancano dati precisi) rimasero nelle “orrende carceri militari per 20 o più
anni” ([16]) perché condannate per gravi reati. Secondo M.
Vitale ([17])
i tribunali avrebbero irrorato, ma non conosciamo la fonte di tale dato, un
totale di 15.345 ergastoli: e non è detto che la prigione fosse sempre
preferibile al rischio di un assalto alla baionetta: basterebbe ricordare le
condizioni in cui dovettero essere tenuti i 400 prigionieri che dal 1916 al '20
rimasero imprigionati nei cosiddetti "quartieri" del forte di Fenestrelle,
in seminterrati bicentenari (dove erano già stati imprigionati nel 1861 circa
200 fra i soldati borbonici di Francesco II
deportati nel nord dopo l'impresa di Garibaldi) in cui, oltre la
temperatura gelida del periodo invernale, "vi era sempre un elevato tasso di umidità, per non dire veri e propri
rivoli d'acqua che si formavano nei periodi di disgelo" ([18]).
Non era difficile incorrere
nei rigori della "legge": guardiamo cosa accadde al fante Giovanni
Perdonò, di Foggia, classe 1891, reduce di Libia e chiamato alle armi nel 1915.
La sua storia è stata raccontata dal nipote sul periodico Sempre Alpini, n.2,
2016. Verso la fine del ’17 riuscì ad ottenere una breve licenza per recarsi
nella sua città natale. Durante il ritorno, però, il treno incappò in uno
sciopero, uno dei tanti che ci furono in Italia in quel periodo, e il nostro
Giovanni rientrò così nel suo reparto in ritardo. Lì, con sgomento, scoprì di
essere stato classificato come disertore e condannato a morte. Magnanimamente
gli fu però offerta un’alternativa: arruolarsi come “volontario” negli arditi
evitando il plotone d’esecuzione: Costretto a scegliere fra una morte certa e
una possibile, il nostro Giovanni divenne, obtorto collo, un ardito. Gli
andò però bene: non solo riuscì a sopravvivere alla guerra, ma guadagnò anche
una medaglia d’argento al Valor Militare
M. Dominioni (p.1) cita invece un caso
emblematico e drammatico : nella notte di Natale del 1916 sul Monte Zebio gli
austriaci "issarono un cartello con
la scritta "Buona Natale", gettarono alcune sigarette ai militari
italiani del 129 rgt. i quali contraccambiarono col lanci di pane". Questa
fraternizzazione col nemico portò, "alla
condanna di due militi ad un anno e di
un altro a 8 anni perché avendo lavorato in Germania e conoscendo il tedesco
fece da traduttore prendendosi l'accusa di tradimento indiretto".
Sul fronte francese è
famosa la “tregua di natale” nata spontaneamente tra soldati francesi, inglesi
e tedeschi la notte di Natale (e i giorni successivi) del 1914, quando i
soldati erano ancora uomini e non imbestialiti. Incominciò con un soldato-
cantante tedesco che intonò canti natalizi dalla trincea. Il canto fu ripreso
dalla trincea inglese, dalla quale poi uscì un suonatore di cornamusa di un
reggimento scozzese. Poco per volta soldati di tre nazionalità uscirono dalle
trincee e fraternizzarono nella “terra di nessuno”("rosbif land", in un
eloquente cartello del film) con scambi di doni. La notizia, attraverso
la censura delle lettere spedite dai soldati, arrivò ai quartieri generali e
provocò autentici brividi di terrore: c’era la paura che i soldati sfuggissero
al controllo dei generali. Entrarono così in funzione le corti marziali e il “fenomeno” (soldati che si riconoscevano
uomini) fu stroncato. Rimase però nella memoria di tanti e, nel secondo dopo
guerra, fu rivissuto in un famoso (quanto purtroppo poco trasmesso) film
francese, Joyeux Noël ([19]).
Infine divenne una famosa canzone negli USA degli anni ’70.
Militari inglesie tedeschi che fraternalizzano durante una "tregua di natale" nel 1914 da https://taskandpurpose.com/history/christmas-truce-world-war-1-history/ |
Un esempio
analogo lo riporta il diario del Ten. A. Ermes Rosa, volontario dell'8 Rep.
d'Assalto "Fiamme Nere", un ardito, insomma: siamo alle pendici del
m. Pertica, il 9 ottobre 1918: “In un
piccolo spiazzo prima della linea s'alzano dei tumuli (..) su uno un fante sta
piantando una croce: "Quando è morto?" chiede G. "L'hanno
fucilato stamane all'alba". " Fucilato! E perché?" " Ieri,
ha buttato una pagnotta agli austriaci per avere del tabacco " ([20]).
Durante la ritirata di Caporetto, (la colpa della
quale secondo Cadorna sarebbe stata la
mancata resistenza delle truppe) le fucilazioni furono usate come metodo per
riprendere in pugno gli uomini. In questa operazione si distinse in particolare
il generale Andrea Graziani, “il quale, valorosissimo, era sempre in prima linea e, con un moschetto, dava la
caccia a quelli che tornavano indietro”
([21]). A lui Pluviano
e Guerrini, ricordato (p.187) che "non siamo in grado di valutare con precisione quanti furono i militari fucilati (fatti fucilare) da Graziani" (..), prendendo in considerazione "solo i casi provati per i quali esistono documenti o testimonianze credibili" , riferiscono "un totale di trentasei vittime". Gli autori di cui sopra ne ricordano (p.185) una, con le
stesse parole con le quali il generale la presentò in una relazione: è il 3
novembre del '17, ore 1630, nella piazza di Noventa Padovana. Siamo durante la
ritirata, davanti al generale –nominato il giorno prima ispettore generale del
movimento di sgombero (sic!)- sfila
una batteria: "allora il mio sguardo
fu attratto da un soldato della
quadriglia che stava per giungere alla mia altezza, il quale con ghigno
beffardo e sguardo di disprezzo, e di sfida
si era messo in bocca un zigaro e mi fissava spavaldamente in
atteggiamento provocante. L'atto del soldato Ruffini distruggeva in un solo
istante l'azione morale che avevo svolto e il prestigio della disciplina
davanti a tutto il reparto. Sceso dall'automobile ("i generali in
carrozza e i fanti a piè", ricorda un vecchio detto piemontese), ho colpito il soldato a colpi di bastone
(!), l'ho fatto mettere ai ferri e
immediatamente fucilare nella schiena (da un drappello di Carabinieri) sulla
Piazza di fronte all'intera colonna" . Il soldato Alessandro Ruffini di Castelfidardo, 24
anni, apparteneva alla 10° batteria del 1°rgt. di artiglieria da montagna. Pluviano e Guerrini riportano poi (p. 188) un pezzo di un articolo dell'Avanti del 28 luglio 1919: "Un borghese interviene e osserva al generale che quello non è il
modo di trattare i nostri soldati. Il generale, infuriato, risponde: Dei
soldati io faccio quello che mi piace". Il padre di Alessandro denunciò il generale per omicidio (Pluviano p.189). Il fatto provocò anche, nel '19, interrogazioni parlamentari e articoli sui giornali.
Ancor oggi a Noventa Padovana
esiste sul muro della casa dove
l'artigliere Ruffini fu fucilato, una lapide col seguente testo: A ricordo di Ruffini Alessandro n. 29/11/1893
m. 3/11/1917. A fianco è stata recentemente installata dal Comune una targa per ricordare il fatto. Abbiamo letto che i fori dei
proiettili che uccisero i giovane "sopratutto durante il fascismo, sono
stati spesso ricoperti e intonacati, ma nottetempo, c’era sempre qualcuno che
grattava via la calce, e in paese si diceva che fosse lo spirito di Ruffini,
che tornava per chiedere giustizia". Oggi, nell’aiuola di fronte, cinque stilizzate sagome di ferro di soldati, opera di un artigiano locale, puntano i fucili e prendono la mira.
Il gen. Graziani e il soldato Ruffini (ancora in divisa da Alpino?) |
La lapide murata sul muro dell'edificio dove fu fucilato il soldato Ruffini (Foto di G. Bertoli) |
Il 13 novembre a Treviso
furono fucilati 13 soldati ( “per saccheggio, violenza,
ribellione a mano armata ai carabinieri”),
il 16 altri 22, compresi alcuni borghesi (Piovano p.190). Il locale
vescovo scrisse: “Qui si fucila senza pietà; preghiamo, preghiamo”.
Nella primavera del '18 Graziani fu promosso al grado tenente generale. Nel
giugno di quell'anno fece fucilare per diserzione 8 soldati della divisione cecoslovacca,
composta da ex prigionieri o disertori dell'esercito austro-ungarico ([22]).
Raggiunta la carica di Luogotenente generale per la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN),
fu trovato morto in circostanze mai chiarite, la notte tra il 26 e il 27
febbraio '31, nella scarpata ferroviaria fra
Prato e Firenze. Vi fu chi ipotizzò che fosse stato ucciso per vendetta
([23])
.
Il gen. Andrea Graziani è ricordato, in prov. di Verona, nella fraz. Valgatara di Marano di Valpolicella nel complesso monumentale del monumento ai Caduti, con un busto con la seguente iscrizione: "Il generale Andrea Graziani ancora e sempre alle generazioni d’Italia ordina di qui non si passa si va oltre". Forse ci starebbe meglio quella frase che l'Avanti del 28 luglio 1919 attribuisce (Pluviano- Guerrini, cit., p. 188) al generale: "Dei soldati io faccio quello che mi piace". Ma ovviamente la mia è un'opinione personale che vale quel che vale...
Fra
gli episodi più eclatanti delle esecuzioni sommarie ricostruite nel libro di
Pluviano-Guerrini possiamo ricordare i 14 fucilati per sbandamento della
brigata Lambro il 25/5/1916, gli 8 della
Salerno fucilati il 3/7/1916 per istigazione
alla diserzione, i 5 del 6 rgt. Bersaglieri fucilati il 31/10/16 per rivolta e, per lo stesso
motivo e nello stesso giorno, 5 fanti della Spezia , 5 della Lombardia l'11/12
e altri 10 il 17/5/1917, 7 fucilati nella Brigata Ravenna il 22/3/17, 5 della
Gaeta il 30/8/17 per diserzione e sbandamento, 11 della brigata Padova
fucilati, sempre per rivolta, il 5/6/17.
Per
insubordinazione furono fucilati nel giugno del ’16 quattro alpini della 109°
comp. della XXVI divisione: la compagnia si era rifiutata, a quanto pare, di
assalire frontalmente il monte Cellon,
nei pressi di Cercivento (Udine) : l’esecuzione fu ripetuta due volte
perché una parte del plotone tirò a vuoto ([24]).
Un altro episodio è ricordato nel suo "Diario di Guerra" da Don Antonio dal
Colle, cappellano a Montebelluna: siamo fra il 5 e il 7 maggio 1918, nei pressi del Piave: "5-7 maggio 1918. Al cimitero di Barcon sono stati fucilati
quattro poveri soldati che avevano la famiglia al di là del Piave. Pare che un
maggiore li avesse uditi dire: “Noi non vogliamo andar contro le nostre
famiglie”. Non si può descrivere la disperazione dei quattro poveri soldati,
uno dei quali sposato con figli, e l’impressione provocata nei presenti e nella
gente di Barcon" (vedi qui ) : quel Maggiore sarà tornato a casa lieto per il dovere compiuto?
Gli
episodi più gravi, pur nella diversità
dei numeri, furono forse quelli relativi alla brigata Catanzaro e alla Sassari.
La
brigata Catanzaro, sottoposta ad un vero salasso negli assalti sul Carso, fu protagonista di diversi
episodi di fucilazioni che coinvolsero il 141° e 142° rgt.: 12
"sbandati" fucilati il 27/5/16, 1 fucilato per diserzione il mese
successivo e poi l'episodio più un
drammatico il 16 luglio del '17. Quella che fu definita la più grave rivolta
nell'esercito italiano durante il conflitto si verificò a Santa Maria La Longa,
non lontano da Redipuglia, dove la brigata era stata acquartierata dopo i
massacri sul Carso. La rivolta fu domata dai carabinieri. 16 militari, sorpresi
con le armi ancora calde, furono subito condannati alla fucilazione. Sugli
altri fu effettuata la decimazione: 12 sorteggiati furono immediatamente
fucilati. In totale quindi i fucilati furono 28. I soldati deferiti al
tribunale furono 135: di questi 4 furono
condannati a morte, 2 a 15 anni di reclusione militare. La sorte degli altri
non è nota.
Meno grave nei numeri, ma indicativo per capire quale
fosse l'atmosfera che si respirava tra i soldati –e i loro rapporti con gli
ufficiali di carriera- è quanto successe alla brigata Sassari, 151° rgt., E' il
10 giugno del '17. Siamo sull' Ortigara, altopiano di Asiago. E' un episodio di
fuoco amico: sulle linee italiane cominciano a cadere i colpi corti
dell'artiglieria italiana. Un rifugio viene colpito, subentra il panico, i
soldati cominciano a spingere verso l'imboccatura e a uscire. Un maggiore
"impazzito", interpreta il comportamento dei soldati come un ammutinamento e ordina la decimazione della 3° compagnia. Vengono tratti dai ranghi
4 soldati. Quello che poi accade è poco chiaro. Il plotone d'esecuzione
probabilmente sparò in aria, il comandante del battaglione allora avrebbe ucciso con la sua pistola uno
dei quattro che dovevano essere fucilati. Anche lui cadde ucciso. Ci fu
un'inchiesta e alla fine tutti gli imputati furono assolti, in quello che forse
fu un caso di ufficiale ucciso dai suoi uomini, "una delle tante
nefandezze dai contorni ancora oscuri", ([25])
uno di quei casi che, nella guerra del Vietnam, avranno poi anche un nome: fragging
([26]). L'episodio, a lungo rimasto ignoto, fu
denunciato – con nomi fittizi- da Emilio Lussu in "Un anno
sull'altopiano" (e il libro,
pubblicato in Francia nel '38 uscirà in Italia solo nel '45), ripreso poi da F.
Rosi nel '70 nel film Uomini contro e più
recentemente da A. Tortato che all'episodio ha dedicato un libro. Altri casi di
possibili, non provate, uccisioni di ufficiali ( spesso superiori) da parte dei
loro soldati sono ricordati da M. Pluviano – I. Guerrini nel loro libro (pp. 228-243). Un esempio tra i tanti per indicare quello che poteva essere
lo stato d'animo dei soldati nei confronti di certi ufficiali ce lo dà, a p. 22
del suo diario, un ex ragazzo del '99, il già ricordato T.C. E. A. Rosa,
volontario negli arditi: "..mentre ero in tenda odo un gran clamore
levarsi dall'accampamento. Esco e vedo i fanti saltare e abbracciarsi urlando e
ridendo. Chiedo cos'è successo e mi dicono che è franata la caverna del Comando
del Rgt. e che vi è rimasto sotto il Colonnello. Interveniamo noi ufficiali a
far finire la gazzarra. La caverna era veramente crollata, ma il Colonnello si
era salvato" .
Un altro caso molto
discusso è quello relativo alla morte del gen. Cantore ucciso il 20 luglio 1915
sopra Cortina da un cecchino austriaco. La sua morte è descritta, con considerazioni che ben dimostrano quanto (poco) valesse la vita di un soldato rispetto a quella di un ufficiale, da A.G. Barni, Un automobilista in guerra, Mi. 1917,
pp. 165-66: "E’
morto il gen. Cantore (..) Appiattato dietro
un roccia se ne stava scrutando le posizioni nemiche. La sua ombra è
scorta dal freddo tirolese cacciatore di camosci (..) La notizia fa sorgere in molti spontanea la
domanda: se sia veramente utile alle finalità di una campagna questo continuo
esporsi degli ufficiali superiori sulle prime linee del fuoco (..) Conviene
davvero esporre continuamente ai capricci di una pallottola anonima la vita di
un generale? La mente che disciplina e dirige l’urto brutale della massa è
giusto che si confonda con essa ed il suo sacrificio personale sia eguale in
tutto e per tutto al sacrificio dell’ultimo soldato? Non c'è bisogno di commenti..
C’è però anche un’altra versione dei fatti, diffusasi fin dal tempo della guerra, secondo la quale il generale sarebbe stato ucciso da un soldato italiano. Cantore era – così almeno fu definito- un soldato tutto d’un pezzo, chiamato da Cadorna per sostituire il generale Saverio Nasalli Rocca, accusato di essere troppo lento e prudente. La vicenda (e la diceria dell’uccisione ad opera non del nemico) ha tratto nuovo materiale da una mostra organizzata a Cortina (se non andiamo errati nel ’98) nella quale era esposto anche il cappello portato dal generale quando fu ucciso, con la visiera forata dal proiettile mortale.
C’è però anche un’altra versione dei fatti, diffusasi fin dal tempo della guerra, secondo la quale il generale sarebbe stato ucciso da un soldato italiano. Cantore era – così almeno fu definito- un soldato tutto d’un pezzo, chiamato da Cadorna per sostituire il generale Saverio Nasalli Rocca, accusato di essere troppo lento e prudente. La vicenda (e la diceria dell’uccisione ad opera non del nemico) ha tratto nuovo materiale da una mostra organizzata a Cortina (se non andiamo errati nel ’98) nella quale era esposto anche il cappello portato dal generale quando fu ucciso, con la visiera forata dal proiettile mortale.
Ebbene, il foro sulla
visiera sarebbe risultato compatibile col diametro del proiettile italiano (6,5
mm) e non con quello del proiettile del fucile austriaco Steyr- Mannlicher, più
grosso (8 mm.). Quindi il generale
sarebbe stato ucciso da fuoco, per così dire, amico. I sostenitori della
versione ufficiale dicono però che, essendo la visiera di cuoio, è possibile
che col passare degli anni il cuoio si sia irrigidito e ristretto. Il giallo,
così, per chi vuole, continua. L’intera vicenda è leggibile in un articolo di
A. Checchi presente in internet (27),
mentre sempre in internet una ricerca alla voce “generale Cantore” può dare un’idea dello “stato
dell’arte”
della dibattuta questione ([28]).
Teniamo presente che Cantore fu ucciso nei pressi di Cortina, e che Cortina era
all’epoca una cittadina austriaca da 400 anni, dove “l’arrivo delle truppe
italiane era stato accolto più come un'occupazione che come una liberazione”.
Particolarmente
odiosa era la tecnica della decimazione: Cadorna scrisse che "mezzo
idoneo a reprimere reato collettivo è quello della immediata
fucilazione dei maggiori responsabili, allorché l'accertamento dei responsabili
non è possibile rimane il dovere e il diritto dei comandanti di estrarre a
sorte tra gli indiziati alcuni militari
e punirli con la pena di morte” ([29]).
Le ribellioni di reparti che
si rifiutavano di andare
all'assalto hanno pochi precedenti nella
storia militare italiana. Ma almeno uno esiste, lontano, recentemente ricordato
in un testo sulla Guerra delle Alpi del
1792 ([30]),
e assai istruttivo. E' il (poco) famoso ammutinamento del Rgt. Vercelli nel
1793, all'epoca della battaglia dell'Authion fra piemontesi e francesi. Il 1°
Vercelli è chiamato per l'ennesima volta all'assalto. In realtà non toccava a
lui, ma il suo comandante, il cavalier
d'Osasco di Cantarana aveva pregato il conte Vitale, comandante del rgt.
Oneglia, che avrebbe dovuto andare il
linea, di cedere ai suoi uomini
quell'onore... Ma i 400 fucilieri del 1° Vercelli il loro turno in linea
l'avevano già fatto, e all'ordine del comandante risposero restando immobili,
con l'arma al piede: era qualcosa di inaudito, uno sciopero militare compiuto
di fronte al nemico: " A nulla
valsero le urla, le minacce, gli insulti di fronte a quel muro di facce mute,
astute, beffarde", scrivono gli autori. Che fecero allora gli
ufficiali? "Pallido di rabbia,
l'Osasco chiamò gli officiali. Obbedirono sgomenti, andandogli appresso in una
folle carica suicida": 4 furono uccisi, due feriti, sette caddero
prigionieri. Per l'ammutinamento collettivo di fronte al nemico anche allora gli
Articoli di Guerra prevedevano la
decimazione del reparto. Ma le fonti, ricordano gli autori sopracitati, non
registrano nessuna punizione collettiva:
nel 1793 gli ufficiali reagirono ad
un rifiuto della truppa a
seguirli andando all'assalto da soli, nel 1917 chiamavano i Carabinieri e
procedevano alla decimazione.
Proprio alla decimazione è dedicata la citazione con
la quale chiudiamo il nostro articolo. A scrivere è Silvio d'Amico La vigilia di Caporetto. Diario di Guerra
1916-17. Il brano, anch’esso ripreso da Pluviano- Guerrini (pp. 231-232) ma
si può trovare anche in Internet,
ricorda un episodio di decimazione di cui non era stato testimone ma che gli
era stato raccontato durante un suo ricovero in ospedale e riguardante fatti
che sarebbero avvenuti il giorno 28 (l'anno dovrebbe essere il 1917,
il luogo e mese non sono precisati). Il
sorteggio per la decimazione avvenne il
30. Tra i sorteggiati ci fu un
complemento arrivato il 29. Al momento dell'esecuzione costui si rivolse al
comandante dicendo : "signor
colonnello (…), io sono della classe del '75. Sono padre di famiglia. Il giorno
28 io non c'ero. In nome di Dio. Il colonnello con fare paterno gli rispose: io
non posso cercare tutti quelli che c'erano o che non c'erano. La nostra giustizia
fa quello che può: se tu sei innocente, Dio te ne terrà conto. Confida in Dio.
L'uomo fu legato insieme agli altri, i
carabinieri spararono, ma tre soldati
restarono solo feriti e tra loro vi era l'anziano soldato, che si rialzò e
urlò: Signor colonnello, grazia! Per la
mia famiglia! In nome di Dio! Il comandante rispose: Dio ti vede, Dio ti
giudicherà e lo fece uccidere. Il giorno dopo il reparto uscì all'assalto
guidato dal colonnello assassino che cadde tra i primi. Ma le ferite erano,
secondo il testimone, in maggior numero sulla schiena che sul petto".
Ovviamente lasciamo all'autore del Diario
di Guerra la responsabilità sulla veridicità dell'accaduto.
Mille fucilazioni, ma in ognuna c’era un uomo solo
davanti ad un plotone: isoliamone una.
E’
quella cui assistette personalmente il già citato ex ardito Ermes Rosa ( p. 121-122): l’esecuzione mediante
fucilazione alle spalle di un alpino italiano il 4 maggio del ’18 per “insubordinazione, vie di fatto contro un
ufficiale, diserzione di fronte al nemico”: “E’ un bel ragazzo, avrà
non più di 22-23 anni (..) le guancie hanno due pomelli rossi, e la gamba
sinistra un ticchettio che gli fa battere il piede a terra (..) Fatti due o tre
passi si volta di scatto verso di noi e a voce alta grida: Salvatela voi
la bella Italia (..)Sei uomini in ginocchio, sei in piedi (..) la scarica rompe
il pesante silenzio, il condannato non ha un tremito, cade dolcemente
all’indietro (..) noi ce ne andiamo subito, nessuno parla. Seppimo poi che fu
seppellito sul posto, senza croce”.
Senza croce…
Ma cosa succedeva dopo la fucilazione?
Un documento pubblicato in AA.VV., La storia dietro l'angolo. Luoghi e percorsi della ricerca locale, Istit. Intern. di Studi Liguri -Soc. Sav. di St. Patria, s.d. (2011?), p. 68, ci fornisce un esempio della prassi. Si tratta di una comunicazione che l'Ufficio informazioni del 2° Rgt. Alpini invia nel settembre '16 al Sindaco di un comune ligure con il quale "questo Comando compie il funesto incarico" di comunicare l'avvenuta fucilazione a Serpenizza (nei pressi di Caporetto) "per codardia" del soldato ** di 21 anni, delegando al Sindaco stesso il doloroso incarico "di darne partecipazione" alla famiglia, beninteso "con ogni possibile riguardo".
Del nome del soldato in questione non c'è traccia sul monumento ai caduti del Comune: damnatio memoriae completa! (E, probabilmente, alla famiglia nessun aiuto e forse anche l'ostracismo della gente).
La domanda che si pongono Pluviano-Guerrini a p. 270 al termine di queste pagine è se le fucilazioni sommarie siano state “un mezzo estremo, usato di rado e in condizioni disperate”, o uno "strumento terroristico" di uso abituale per tenere le truppe. Probabilmente nessuna delle due ipotesi estreme è giusta, ed è possibile condividere l'opinione dei due autori citati: "Le dimensioni del fenomeno (..) impediscono di considerarlo un elemento occasionale. D'altronde non ci sono prove che si sia trattato di un' usanza abituale (forse perché non era abituale la disobbedienza del soldato?) (..) riteniamo però che le esecuzioni extragiudiziali abbiano fatto parte in maniera organica dell'arsenale disciplinare ideato e teorizzato dai comandi".
Un documento pubblicato in AA.VV., La storia dietro l'angolo. Luoghi e percorsi della ricerca locale, Istit. Intern. di Studi Liguri -Soc. Sav. di St. Patria, s.d. (2011?), p. 68, ci fornisce un esempio della prassi. Si tratta di una comunicazione che l'Ufficio informazioni del 2° Rgt. Alpini invia nel settembre '16 al Sindaco di un comune ligure con il quale "questo Comando compie il funesto incarico" di comunicare l'avvenuta fucilazione a Serpenizza (nei pressi di Caporetto) "per codardia" del soldato ** di 21 anni, delegando al Sindaco stesso il doloroso incarico "di darne partecipazione" alla famiglia, beninteso "con ogni possibile riguardo".
Del nome del soldato in questione non c'è traccia sul monumento ai caduti del Comune: damnatio memoriae completa! (E, probabilmente, alla famiglia nessun aiuto e forse anche l'ostracismo della gente).
La domanda che si pongono Pluviano-Guerrini a p. 270 al termine di queste pagine è se le fucilazioni sommarie siano state “un mezzo estremo, usato di rado e in condizioni disperate”, o uno "strumento terroristico" di uso abituale per tenere le truppe. Probabilmente nessuna delle due ipotesi estreme è giusta, ed è possibile condividere l'opinione dei due autori citati: "Le dimensioni del fenomeno (..) impediscono di considerarlo un elemento occasionale. D'altronde non ci sono prove che si sia trattato di un' usanza abituale (forse perché non era abituale la disobbedienza del soldato?) (..) riteniamo però che le esecuzioni extragiudiziali abbiano fatto parte in maniera organica dell'arsenale disciplinare ideato e teorizzato dai comandi".
Ci
pare anche interessante il giudizio con il quale i due autori concludono la loro opera:
“Mentre i vertici militari dell’Intesa si dimostrarono estremamente lenti nel fare
tesoro delle lezioni di tattica e strategia che avrebbero potuto far risparmiare
milioni di vite, furono quanto mai rapidi nel far evolvere, o meglio involvere,
le istituzioni e la società. (..) La loro prima preoccupazione
politico-organizzativa (..) fu di riaffermare il quadrinomio disciplina,
gerarchia, ordine, tradizione. Questo intervento restauratore avvenne non
solamente riguardo alla vita militare, ma per la società in generale, e con una
rapidità ed efficienza tali da far ipotizzare che l’idea alleggiasse da tempo e
aspettasse solamente l’occasione di essere messa in pratica, in un grande e
folle disegno di ingegneria sociale destinato ad invertire la tendenza
riformatrice che aveva contrassegnato i decenni precedenti”. (ibidem, p.273).
Anche
lo storico A. Gibelli ([31])
parla della I G.M. come “generatrice di ordine”:
” La classe dominante era decisa a tutto pur di
rinsaldare l’ordine e di consolidare il suo potere sulla società. Il
Parlamento fu esautorato dal Governo. Una minoranza agguerrita, appoggiata dai
centri di potere economici e politici fondamentali (monarchia, grande capitale)
riuscì ad imporre la scelta contro una maggioranza debole, incerta, divisa.
Rispetto al vecchio mondo liberale stavano emergendo nuove forze e nuovi
meccanismi politici. Proprio l’aspirazione delle classi dominanti a riportare
l’ordine e a ristabilire le gerarchie profondamente scosse dalle lotte sociali fu
uno dei motivi centrali che giocarono a favore
dell’intervento. (..) Sempre più forte si fece l’esigenza di irreggimentare le classi in
modo da spegnere sul nascere la profonda inquietudine sociale. La guerra e
l’inquadramento nell’esercito sembravano la soluzione adatta per i riflessi
d’ordine che avrebbero generato e l’occasione che avrebbero offerto di
ripristinare, tanto fra i combattenti quanto nel paese, il principio gerarchico
dell’obbedienza e del comando”.
E’ quanto
sosteneva già allora, per es. Giovanni Boine (1887-1917) che sulla Voce scriveva: “In mezzo all’anarchica passione
civile e sociale , in mezzo a lotte di interessi e di classe, l’esercito è come
un generatore di ordine (…) solo in un luogo si impara efficacemente
a praticare l’ordine, solo nell’esercito” ([32]).La guerra
diventa quindi “ricomposizione, disciplina di massa coatta, restauro
gerarchico, enfatizzazione dei valori d’ordine. (..) Per le destre vecchie e
nuove (..) basta questa salutare obbedienza imposta ai richiamati tramite la
mobilitazione generale a ridare sicurezza all’imperio. Comunque essa venga
assicurata, dall’analfabetismo o dal codice militare, (..) la passività delle
masse ( e per chi non si allineava c’era il plotone di esecuzione..) è
garanzia di continuità delle oligarchie
dirigenti” ([33]). E l’irreggimentazione
non riguardava solo i militari, ma aveva pesanti ricadute anche sul mondo
civile: “Alla carenza di manodopera dovuta alla chiamata alle armi si cerca
di ovviare con sospensioni delle leggi limitatrici dell’offerta di lavoro (turni
di lavoro domenicale e di riposo), con impieghi coattivi dei prigionieri di
guerra, con destinazione dei condannati ai lavori pubblici e privati. (..) La
speciale legislazione di guerra che lo Stato promulga subito dopo lo scoppio
delle ostilità permette agli industriali di reclutare decine di migliaia
di donne
senza le usuali garanzie, di concentrarle in stabilimenti spesso
inadatti e improvvisati, di occuparle molte ore del giorno e della notte (..)
di adottare misure di estrema gravità per evitare le assenze individuali e
collettive, i rifiuti di obbedienza, le minacce
di comminare pene severe a donne e bambini”([34]).
La stessa interpretazione anche in F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla
grande guerra al fascismo 1918-1921, UTET Libreria 2009, secondo il quale
già prima dell’affermazione del fascismo si era di fronte ad una tendenza
all’autoritarismo da parte dello Stato.
Abbiamo invece alcuni dubbi circa l’esistenza di una “tendenza
riformatrice” esistente, nell’esecutivo, negli anni precedenti. Anzi, ad
avviso di chi scrive, le radici della tentazione -o tendenza –
all’autoritarismo andrebbero cercate ben prima degli anni della guerra passando
dalla ventata repressiva dopo Caporetto, al patto di Londra (premessa alla
dichiarazione di guerra all’Austria) stipulato all’insaputa del Parlamento,
alle cannonate di Bava Beccaris del 1898, all’ostruzionismo –chiamiamolo così-
di fronte alla nascita delle cooperative e società operaie di mutuo soccorso
nella seconda metà dell’800, fino alla repressione dei moti del 1833 e ’21: in
pratica un filo continuo dalla
Restaurazione in poi. Ma questa è ovviamente un’opinione personale.
RIABILITARE I FUCILATI?
Oggi,
a un secolo dai fatti, possiamo considerare questa pagina, terribile e
spietata, come una pagina ormai girata, da inquadrare nella situazione (e
mentalità) dell'epoca e da consegnare alla storia?
Non contando i casi di vera
criminalità, che certo ci furono, chi finì davanti al plotone d'esecuzione
spesso non era meno coraggioso di chi, talora non proprio vicino al fuoco,
lanciava ruggenti e spietati proclami da sicure ville nelle retrovie.
Questi uomini fucilati,
esasperati, stressati, reduci da mesi di prima linea, sottoposti ad ordini
spesso spietati, talora irrazionali (ricordiamo le undici spallate sul fronte dell’Isonzo ), non
furono, nella maggioranza dei casi, né dei traditori né dei vigliacchi. Occorre riconoscerlo.
Altrove è stato fatto.
In Francia, come
appropriatamente ricordano a p. 2 Pluviano e
Guerrini, (ai quali va il grande merito di aver scritto un libro che
doveva essere scritto) il Primo Ministro Jospin il 5 novembre del '98 ha riabilitato
i soldati fucilati per dare un esempio, “vittime di una disciplina il
cui rigore non aveva eguale che nella durezza dei combattimenti”,
in Inghilterra J. Reid, allora ministro
della difesa, ha proposto nel '98 di
reintegrare a pieno titolo i fucilati
nella memoria nazionale e lord Carlisle il 13 gennaio del '99 ha
domandato il perdono per tutti i fucilati
di guerra. E in Italia?
In Italia ci si è mossi con un po’ di ritardo.
In Italia è attualmente in
discussione in Commissione difesa il Disegno di Legge 1935 “Disposizioni concernenti
i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la prima
Guerra mondiale”.
Ecco le varie tappe (https://parlamento17.openpolis.it/singolo_atto/48361)
dell’iter del Disegno di Legge:
presentato alla Camera il 21/11/2014
approvato dalla Camera il 21/5/2015
passato al Senato (Commissione Difesa) il 25/05/2015
ultimo status (salvo
errori) 24/1/2017.
Abbiamo provato ad addentrarci nei meandri della
discussione in sede di Commissione
Difesa (http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/45692.pdf):
(v. in particolare pp. 38, 46, 47, 86, 87): abbiamo capito perché a proposito
di una nuova legge si parla di …travaglio e. ..parto.
Può essere interessante vedere, nel link sopra inserito, i mutamenti, anche sostanziali, che la
proposta di legge sta subendo nei vari
passaggi ([35]).
Ad oggi (06/01/2019) per quanto ne so la proposta non ha fatto ulteriori passi avanti.
Ad oggi (06/01/2019) per quanto ne so la proposta non ha fatto ulteriori passi avanti.
UNA PAGINA
CHIUSA?
Ma arrivati alla fine di
queste pagine c’è ancora una domanda, inquietante: tutto questo sarebbe ancor
oggi possibile? Potrebbe capitare ancora?
Leonello
Oliveri
Proprietà Letteraria riservata
Riproduzione vietata
[1] ) http://www.cimeetrincee.it/scrivia.htm
[2]
) [2] ) G.
Roncat nella prefazione a M. Pluviano, I. Guerrini, Le
fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale, Gaspari edit., Udine, 2004 pp. XIII, XIV: “il totale dei soldati italiani fucilati nella grande guerre sale così a
oltre 1000, 750 per condanne dei
tribunali, 300 senza processo per mano dei loro ufficiali”.
[3] )
Proprio tale indagine, concretizzatasi fra l'altro in una "Relazione sulle fucilazioni sommarie durante
la Prima Guerra Mondiale" redatta nel settembre del '19 dall' Avv.to
Generale Militare del Regio Esercito A. Tommasi, ha fornito, per es., il
materiale per il più volte citato libro di Pluviano e Guerrini.
[4] )”Gli
italiani sprecavano un’enorme quantità di soldati”, scriverà Hemingway,
cit. da C. Gatterer, Italiani maledetti, maledetti austriaci,
Bolzano, Praxis 3, 2009 ( in Wikipadia).
[5]
) Dall’osservazione di questa
“stupidità” militare –peraltro comune a molti eserciti dell’epoca- che portava
ad assalire il nemico là dove era più forte, nascerà uno dei più brillanti
saggi sulla guerra, il troppo poco noto –specie in ambito militare- Paride e
il futuro della guerra di B. H.
Liddell Hart: “E’ compito della grande strategia individuare e sfruttare il
tallone di Achille di una nazione nemica, colpendo non la sua fortificazione
più massiccia, bensì il suo punto più vulnerabile: Fu in questo modo che
Paride, figlio di Priamo re di Troia – e noto, aggiungiamo noi, più per i
suoi exploit amorosi che per capacità
militari- uccise il campione dei
greci”: così Hart scriveva nel 1925,
dopo aver assistito agli inutili massacri della I GM. Ma 15 anni dopo i
gallonati e brillanti strateghi militari italiani attaccheranno la Francia
scagliando la fanteria conto la linea Maginot alpina.
[6] )
Per es. in quello inglese dove “la differenza di classe che isolava gli
ufficiali comandanti dai semplici fanti,
impedendo la comunicazione tra gli uni e gli altri, si rivelò fatale al punto che la forza di spedizione
britannica cessò, per i mesi che seguirono (fa riferimento alla battaglia
di Passchendaele –agosto/novembre 1917- dove gli inglesi ebbero, secondo alcune
fonti, oltre 300 mila tra morti e feriti) di avere effettive capacità
offensive” (K.O. Morgan, Storia dell’Inghilterra, Bompiani 1999, p.
447.
[7] )
V. G. Unia, Il caso Araldi. Un generale
cuneese oppone al massacro dei suoi soldati sul
Carso della Grande Guerra.(V.
anche http://www.alpinia.net/editoria/recensioni/rec_scheda.php?id=174),
e https://it-it.facebook.com/Apibeco/
[8] ) V. anche M. Isnenghi, G. Rochat (a cura di), La Grande guerra 1914-1918, Il Mulino, Bologna 2008, p. 350. Il dato numerico dei decessi si può trovare anche in C. Pavan, Prigionieri italiani dopo Caporetto, Treviso 2001. Sarebbe
interessante anche studiare il numero dei morti fra i prigionieri austriaci in
mano agli italiani e le condizioni in cui gli stessi furono tenuti. Drammatiche, per es., le condizioni dei prigionieri austroungarici trascinati nella sua ritirata dall'esercito serbo, affidati, su sua richiesta, all'Italia e trasferiti all'Asinara, dove per malattie (colera), condizioni igieniche, mancanza di strutture e assistenza, impreparazione generale a gestire (anche allora!) un così gran numero di arrivi in un'isola così piccola ci furono migliaia di morti (ma probabilmente se fossero rimasti in mano ai serbi le loro condizioni non sarebbero state migliori): per saperne di più basta digitare in internet i dannati dell'Asinara. Sull’argomento v. L. Gorgolini, I dannati dell’Asinara.
L’odissea dei prigionieri
austro-ungarici nella Prima guerra mondiale, Liberia Editrice Goriziana,
2010. ( si può scaricare qui http://mek.oszk.hu/13600/13608/13608.pdf). Ci si potrebbe chiedere perché l'Italia avesse chiesto la consegna di questi prigionieri. La risposta suggerita da P. Sorcinelli a p. 10 della prefazione all'opera di Gorgolini è che "Anche in questo caso le risposte rimandano a
motivazioni prese in nome di una «ragion di Stato» che induce il
governo italiano a intervenire sulla Francia per la gestione dei prigionieri
austro-ungarici. Con questa mossa l’Italia sperava infatti
di acquisire un riconoscimento politico nello scacchiere slavo": insomma, nulla di nuovo sotto il sole..
[9] ) F.
Montella, 1918. Prigionieri italiani in Emilia. I campi di
concentramento per i militari italiani liberati dal nemico alla fine della
Grande Guerra. Sulla tragedia
(perché di tragedia si trattò) della sorte degli ex prigionieri di
guerra italiani una volta rimpatriati v. http://www.pietrigrandeguerra.it/ex-prigionieri-di-guerra-e-campi-di-concentramento-italiani/
[10] ) N. Mantoan, La
guerra dei gas 1914-1918, Gaspari ed., 2004, p.101.
[11] )
A. GATTI, Dopo Caporetto. Gli ufficiali P nella Grande Guerra:
propaganda, assistenza, vigilanza, Gorizia, Libreria editrice Goriziana
2000 p. 83.
[12])
A. Bianchi, Il diritto penale e la
procedura militare italiana durante la grande guerra, in www.
difesa.it/GiustiziaMilitare/Uffici-Giudicanti/tribunale_la_spezia/bianchi.h...,p.7
(d’ora innanzi Bianchi): recentemente il Tribunale Militare di La Spezia è
stato soppresso e le sue competenze accentrate, salvo errori, in quello di
Verona. Di conseguenza questo link non è più funzionante. V. anche Pluviano-Guerrini, op.cit.,p.264-5 n.12.
[13] ) M. Vitale, Piombo
italiano per un fante di Salcito? In
http://www.cimeetrincee.it/salcito.htm
[14] )
I dati relativi a questo aspetto particolare della I G.M. sono talora diversi
nelle varie fonti. E. Nistri, La
situazione militare italiana alla vigilia del conflitto (in Storia
Illustrata,n. 330, 1985, p.69 ) ricorda invece 128.527 casi di diserzione
accertati con 10.272 condanne nel 1° anno di guerra, 27.817 nel secondo e
55.034 nel terzo. A sua volta S.A. Rouzeau-A. Becker, 1914-1918. La
prima guerra Mondiale, universale Electa/Gallimard,1998, p. 94 ricorda che "tra
il 1915 e il 1918 il Tribunale supremo Militare registra, su 5.200.000 italiani
arruolati, 400.000 denunce per reati commessi sotto le armi, 470.000 denunce
per renitenza, 4000 condanne a morte di cui 750 eseguite". Mario Lombardo, in Un milione di soldati italiani processati nella guerra ‘15-‘18 in Storia Illustrata n. 159, 1971, pp. 6-7
ricorda 1.030.000 processi tra i quali “370.000 riguardavano cittadini italiani
richiamati alle armi mentre erano
all’estero e non rimpatriati. Ai primi di settembre 1919 erano chiusi 500.000
processi dei quali 130.000 con
proscioglimento, 150.000 con assoluzione e 220.000 con condanne a pene
detentive (..) Il 2 settembre 1919 Nitti
emanò un provvedimento col quale vennero liberati 40.000 detenuti e
furono considerati estinti 110.000 processi ancora in corso. Dall’estero
giunsero 270.000 italiani a chiedere il condono. In carcere rimasero 20.000
uomini e altrettanti in latitanza, mentre 600.000 approfittarono dell’amnistia.
(..) Nel 1924 Nitti scriveva: L’Italia ha ancor oggi nei luoghi di pena quasi più condannati per reati
di codardia che Francia ed Inghilterra messi insieme”. Come si vede, dati talora contrastanti.
[15] ) E. Zucconi, Divisione Monterosa, Novantico editrice,
Pinerolo,1996, p.55.
[16] ) G. Roncat, cit.,
p. XIV.
[17]) M. Vitale, Piombo italiano per un
fante di Salcito? In http://www.cimeetrincee.it/salcito.htm.
[18] ) M. REVIGLIO, La
valle contesa. Storia della Val Chisone e del forte di Finestrelle, Torino
2006,p. 135.
[19] ) E almeno la scena del
canto (Singing scene) merita di essere vista in uno dei tanti video
disponibili in rete, magari a Natale.
[20] ) E. A. Rosa, Un anno con l'armata del Grappa. Odissea di
un ragazzo del '99, Iseo, 1982, p. 205.
Teniamo presente che anche l’attuale
Codice Penale Militare di Guerra all’art. 56 (Comunicazione illecita con il nemico, senza il fine di favorirlo) punisce con la reclusione da uno
a sette anni “il militare che, senza il fine di favorire il nemico, ma senza
autorizzazione o contro il divieto dei regolamenti o dei superiori, entra in
comunicazione o corrispondenza con una o più persone delle forze armate nemiche
o della popolazione dei luoghi appartenenti allo Stato nemico”.
[21] )
Citato da Pluviano- Guerrini, p. 186, 194.V. anche C. A. Loverre,
Al muro. Le fucilazioni del gen. Graziani nel novembre 1917. Cronache di una
giustizia esemplare a Padova e Noventa Padovana, in Materiali di storia, n.
19, Aprile 2001 p. 10. http://www.centrostudiluccini.it/_old/s_19.htm.
[22]) Loverre, cit., p.11.
[23] )
Pluviano - Guerrini, op. cit., p.194.
[24] )
L. Fazzo, Le ultime ore
degli alpini. Le fucilazioni di Cercivento 90 anni dopo, da La Repubblica
21/7/2003 (da http://www.cimeetrincee.it/artic.htm). E proprio a Cercivento esiste, per ricordare
questi alpini, l’unico monumento –a quanto mi risulta- dedicato in Italia “a soldati uccisi non dal nemico
ma dai propri comandanti”. Anni or
sono era stata avviata, non sappiamo con quale esito, un’iniziativa per ottenere un processo di revisione che
restituisse l’onore ai quattro fucilati.
[25]
) Tuttostoria notizie , n. 123,
giugno 2006, p.45 nella presentazione
del libro Ortigara, la verità negata,
di A. Tortato che a questa vicenda è dedicato.
[26] ) “In the U.S. military fragging refers to the act of attacking
a superior officer with a fragmentation grenade. The term originated in the
Vietnam War and was most commonly used to mean assassination of an unpopular officer of one's own fighting
unit, often by means of a fragmentation grenade, hence the term. Although the
term is derived from the grenade, the act was more commonly committed with
firearms during combat in Vietnam.
As the war became more unpopular, soldiers
became less keen to go into harm's way, and preferred leaders with a similar
sense of sel-preservation. If a C.O. was incompetent, fragging the officer was
considered a means to the end of self-preservation for the men serving under
him” (da
Wikipedia). Possiamo tradurre più o meno così: “Nel linguaggio
militare USA il termine fragging
si riferisce all'atto di attaccare un ufficiale con una granata a
frammentazione. Il termine ha origine nella Guerra del Vietnam ed è stato più
comunemente utilizzato per indicare l’uccisione di un ufficiale impopolare da
parte della propria unità di combattimento, spesso per mezzo di una granata a
frammentazione, da cui il termine. Anche se il termine deriva dal granata,
l'atto è stato più comunemente commesso con armi da fuoco durante combattimenti
in Vietnam. Se un comandante era incompetente, “fragging” l'ufficiale è stato
considerato un mezzo per il fine di auto-conservazione per gli uomini che
servono sotto di lui”. Interessante la definizione del “fragging”
come mezzo di autoconservazione dei soldati nei confronti di un superiore “incompetent”.
[27]
) Anna Checchi Un cappello riapre (e forse risolve) il giallo
della Grande Guerra: "Ma quale
cecchino nemico, al generale spararono i nostri" http://www.cimeetrincee.it/artic.htm
. Così l’autrice termina l’articolo dedicato alla vicenda: “Ora che il
famoso berretto è tornato a Cortina, tutti, ampezzani e turisti che hanno
seguito la vicenda sul quotidiano locale, fanno la fila davanti al museo per
osservare il prezioso cimelio. Guardano il foro, guardano gli esemplari di
pallottole esposte là accanto, fanno la prova, vedono che quella austriaca non
passa dal buco, l’altra si, e scuotono la testa allibiti. Sarà anche vero che
il cuoio si stringe, però… E il giallo continua”
[28])
L’ipotesi dell’uccisione del gen. Cantore per mano italiana non è condivisa,
per es., da B. Ongaro, La morte del generale Cantore, (http://archivio.caiconegliano.it/Esp/Cantore%20Ongaro.htm)
, che la ritiene “un’accusa gratuita ed ingiusta”. Per Wikipedia, invece, “secondo una
diffusissima e non trascurabile vox populi, questo suo temperamento a volte
crudele e inflessibile avrebbe potuto procurargli la morte per mano dei suoi
stessi uomini” (http://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Cantore).
[29])
Citato da F. Riccardo, Le
fucilazioni, in http://www.cimeetrincee.it/fucilazi.htm.
[30]) V.
Ilari, P. Crociati, C. Paoletti,
La guerra delle Alpi 1792-96, Stato Maggiore Esercito, Ufficio Storico,
Roma 2000, pp.12-15.
[31] ) A. Gibelli, 2
secoli: ottocento e novecento, vol. 2, Grande Guerra e società di massa,
Nuova Io e gli Altri, Ge., 1982, p. 24.
[32] ) ibidem, 27
[33] )M. Ismenghi, Interventismo,
in
Storia d’Italia 2, La
Nuova Italia, Firenze, 1978
[34] ) G. Porisini, Il
capitalismo italiano nella Ia Guerra Mondiale, La Nuova Italia, Firenze,
1975.
[35])
il disegno di legge 1935 approvato dalla Camera il 21 maggio 2015
(http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/919262/index.html#)
parlava esplicitamente (art. 1) di “procedimento
di riabilitazione” dei militari condannati a morte nonché (art. 2) della “volontà
della Repubblica di chiedere il perdono dei militari caduti” mediante
l’affissione al Vittoriano di Roma di una targa in bronzo “che ne ricorda il
sacrificio”.
Arrivata il 2/11/2016 in Commissione
Difesa del Senato
(http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/45692.pdf nel nuovo testo proposto dal
Comitato Ristretto e adottato dalla Commissione iniziano le modifiche: non si parla più di
riabilitazione ma semplicemente (p.38 )
“la Repubblica riconosce il sacrificio degli appartenenti alle Forze
armate italiane che, nel corso della prima Guerra mondiale, vennero fucilati
senza che fosse accertata a loro carico, a seguito di regolare processo,
un'effettiva responsabilità penale”, mentre nella targa affissa al
Vittoriano anziché chiedere perdono dovrebbe essere scritto “A chi pagò con
la vita il cruento rigore della giustizia militare del tempo offre il proprio
commosso perdono”: insomma, invece di chiedere perdono, lo si concede.
Nella
nuova riunione l’8/11/2016 vengono presentati (pp. 46, 47) alcuni emendamenti
nei quali si ritorna a parlare di procedimento di riabilitazione e della
e la volontà della Repubblica di chiedere il perdono dei militari caduti che
hanno conseguito la riabilitazione “
Infine, per ora, nella riunione del
24/1/2017 della 5a Commissione Permanente Bilancio (p.88) la “Commissione programmazione economica, bilancio,
esaminati gli emendamenti relativi al disegno di legge in titolo, esprime, per
quanto di propria competenza, parere contrario, ai sensi dell'articolo 81 della
Costituzione, sulle proposte 1.10 e 1.2. Esprime parere non ostativo su tutti i
restanti emendamenti."