mercoledì 28 febbraio 2018

CONDANNE A MORTE E FUCILAZIONI SOMMARIE NELLA GRANDE GUERRA


Leonello Oliveri
Plutarco,Vita di T. Gracco, 9):”Le fiere che vivono in Italia
hanno una tana ed un covile dove rifugiarsi, coloro che per l’Italia combattono e muoiono  non posseggono altro che l’aria e la luce: senza casa e senza stabile dimora vanno errando con i loro figli e le loro donne. Mentono i vostri generali quando in battaglia esortano i soldati a respingere il nemico in difesa delle tombe e dei templi: nessuno di voi ha un altare di famiglia, un sepolcro degli avi, ma lottate e morite per il lusso e la ricchezza di altri. Voi che siete i padroni del mondo non avete di vostro neppure una zolla di terra”.
 Cosa c’entrano queste parole  pronunziate dal Tribuno della Plebe T. Gracco nel 133 a.C. con la I Guerra Mondiale?  C’entrano, c’entrano….


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 “All'estremità del ponte c'erano  ufficiali e carabinieri  in piedi con le lampade tascabili (..) Quando ci avvicinammo vidi un ufficiale  indicare un uomo nella colonna: un carabiniere lo seguì e venne fuori tenendo l'uomo per il braccio (..). Mentre ci avvicinavamo si udirono degli spari (..) C'erano  quattro ufficiali in piedi di fronte ad un uomo che aveva un carabiniere per parte (..) Altri quattro carabinieri erano in piedi, appoggiati ai moschetti, vicino agli ufficiali che interrogavano. Erano carabinieri con quei capelli grandi. (..) "Perché non sei col tuo reggimento?(..)  Sei tu  e la gente  come te  che hanno permesso ai barbari di calpestare il sacro suolo della patria". "Vi prego di scusarmi", disse il tenente colonnello. "E' a causa di tradimenti come il tuo che abbiamo perduto il frutto della vittoria" . "Vi siete mai trovato in una ritirata?" - chiese  il colonnello. "l' Italia non dovrebbe mai ritirarsi". (..) Due carabinieri condussero il tenente colonnello  verso la riva del fiume (.. ) Non vidi la fucilazione  ma udii gli spari. Stavano interrogando un altro (..) Facevano in modo di essere occupati a interrogare il prossimo mentre veniva fucilato quello che era stato interrogato prima”
Forse qualcuno dei lettori avrà riconosciuto queste righe. Sono, nella traduzione di F. Pivano (Oscar Mondadori), quelle che Hemingway scrisse in Addio alle Armi raccontando la ritirata di Caporetto, cui comunque lui, volontario della ARC (American Red Cross) sul fronte del Piave, non fu coinvolto essendo arrivato in Italia solo nel maggio del '18.
Manifesto di propaganda italiano: che poi l'Austria
(o la Germania) rappresentassero la barbarie...
E proprio alla tragedia delle fucilazioni sommarie, e più in generale alle condanne a morte irrorate dai tribunali militari, o da improvvisate corti marziali, o direttamente da singoli ufficiali, è dedicato questo articolo.
Negli ultimi anni alcune pubblicazioni, ricordo soprattutto M. Pluviano e I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale Gaspari edit., Udine, 2004 (dalla quale sono tratte molte  delle citazioni e dei dati di questo post) e la ristampa  del libro di  E. Forcella - A.  Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale,  Bari, Laterza, 1998,  hanno sollevato (o risollevato) il pesante velo calato su un pagina dolorosa e terribile della nostra storia: quello delle condanne a morte e fucilazioni di soldati italiani effettuate durante la I Guerra mondiale. Si tratta infatti di un argomento non certo piacevole o facile: basti dire che la pubblicazione di  Addio alle Armi di  Hemingway, composto nel ’29 e subito tradotto in molte lingue europee, fu proibita in Italia dal fascismo e gli italiani poterono conoscerlo solo nel 1946. Ci sembra però utile, "in questi tempi di bellicosità diffusa e di crescenti nazionalismi - come hanno opportunamente notato Pluviano e Guerrini nella prima pagina del loro testo- riflettere sulle aberrazioni cui conduce la guerra".
Secondo fonti penso attendibili ([1]) 1061 sarebbero state le condanne a morte emesse da tribunali regolari e straordinari italiani, di cui 750 ([2]) eseguite.  Questo numero non tiene però conto delle esecuzioni sommarie eseguite in zona di guerra da un ufficiale  di fronte a casi di particolare gravità, esecuzioni talvolta  decise col metodo della "decimazione" a prescindere dall'eventuale personale responsabilità  dei sorteggiati. La ricerca di Pluviano e Guerrini ha  identificato circa 300 fucilati sul campo, che portano il totale dei soldati  italiani fucilati  nella Grande Guerra "a oltre mille, 750 per condanne di tribunali, 300 senza processo per mano ( o per ordine) dei loro ufficiali"  come scrive G. Ronchat a p. XIV nella prefazione del libro citato. Si arriva così ad un totale di oltre 1000 fucilati sui 600.000 caduti al fronte.  Per fare un confronto si può ricordare che negli altri eserciti i fucilati sarebbero stati, secondo il medesimo autore (Pluviano p. XIII), 330 nell'esercito inglese (che aveva una forza più o meno pari a quello italiano: a questi morti dovrebbero però aggiungersi i 71 pacifisti deceduti secondo Pluviano -p. 257- in carcere  o nei campi di lavoro) e 600 in quello francese, che però secondo i dati di Roncat era il doppio di quello italiano. Se i dati sono esatti ne deriva che le fucilazioni nell'esercito italiano sono sia in assoluto sia percentualmente molto più numerose rispetto a quanto verificatosi negli eserciti alleati. Considerato che  come motivi dell'esecuzione erano quasi sempre indicati  diserzione, sbandamento, rivolta, rifiuto di obbedienza, codardia, abbandono di posto, etc. ne consegue che o il soldato italiano era meno coraggioso ed obbediente di quello alleato, o che la "giustizia" militare  italiana era diciamo diversa o quantomeno formulata ed applicata in modo diverso rispetto a quella alleata. Personalmente sul coraggio e spirito di sacrifico del soldato italiano nella Prima Guerra come nella Seconda non abbiamo dubbi.
Occorre comunque notare che se l'Italia fu  il paese che conobbe il maggior numero di fucilati, fu anche quello che ebbe un'indagine ufficiale  sulla condotta del conflitto ([3]) : è quindi possibile che i dati disponibili siano per questo motivo più precisi di quelli di altri paesi.
Ci sono inoltre due elementi da tenere in considerazione. Il primo è l'oggettiva difficoltà derivante da come era stata strategicamente impostata la guerra: parafrasando    Carl von Clausewitz possiamo dire che attaccare l'Austria risalendo le Alpi era come sollevare un fucile prendendolo per la baionetta. Accanto a questa c'era però, a nostro avviso, un altro fatto: l'impreparazione, talvolta condita di supponenza, di parte della casta militare negli alti quadri, rimasta  - in certi casi-  alla mentalità di Waterloo: forza bruta e  assalti all'arma bianca; solo che nel '15 (1915!) dall'altra parte non c'erano più i quadrati di Wellington armati con fucili ad avancarica (che comunque respinsero gli assalti della Guardia napoleonica!), ma reticolati, trincee, mitragliatrici ed alta densità di artiglieria  a tiro rapido ([4]).
Per dare un'idea delle difficoltà insite nell'affrontare con la fanteria un fronte trincerato, difeso da reticolati e mitragliatrici, presentiamo alcuni disegni (tratti da Notes on the construction and equipement of trenches, a cura del War Departement- 1917) che ben illustrano cosa fosse un fronte trincerato, con cinque linee di trincee e reticolati per una profondità di quasi un kilometro


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E questo solito maledetto assalto frontale verso il muro nemico resterà una costante ancora a lungo, fino alla sciagurata e disastrosa campagna di Grecia, 25 anni dopo! ([5]) A ciò si aggiunga sovente una  mancanza di rispetto, quando non addirittura  un disprezzo, per la truppa, mancanza di rispetto e/o disprezzo per altro  equamente diffuso anche in altri eserciti ([6])
A quanto mi risulta pochi furono gli ufficiali superiori che ebbero  il coraggio di criticare apertamente questa tattica insensata opponendosi al massacro dei suoi soldati  sul Carso: fra loro ricordo il cuneese gen. Giovanni Airaldi, che  ovviamente ebbe  stroncata la carriera ([7]).
All'incapacità o difficoltà tecnica a valutare le conseguenze dei nuovi armamenti (per altro equamente diffusa in molti degli eserciti  belligeranti) e il mutamento di tattica che richiedevano, si univa talora quello che il giornale Il resto del Carlino (non certo sospettabile di simpatie proletarie) definì nell'agosto del '19 come "l'equivoco fondamentale che esisteva tra i nostri alti gradi e il personale più umile dell'esercito": una scarsa considerazione nei confronti della truppa  alla "mancanza di coraggio" della quale vennero talora imputati gli insuccessi. Ciò è particolarmente avvertibile nel comportamento tenuto  nei confronti dei soldati italiani caduti prigionieri degli austriaci, spesso considerati in blocco come vili. G. Ronchat, nella citata prefazione, ricorda che fra i 600.000 italiani prigionieri degli austriaci si ebbero circa 100.000 morti, rispetto ai 20.000 morti francesi: la causa viene identificata dallo stesso autore (p. XIII) anche nel " triste rifiuto di fornire ai soldati italiani caduti prigionieri (..)  quel minimo di assistenza che ne avrebbe impedito la grande mortalità". 
Come è stato osservato, simili comportamenti segnarono forse «il punto più basso della condotta morale e professionale dei comandanti e del governo italiani nella Grande guerra» ([8]). E' certo un elemento che andrebbe approfondito.
 Quando poi, dopo l’armistizio del 3 novembre,  migliaia di ex prigionieri di guerra italiani in Austria ritornarono in patria, l’atteggiamento delle nostre autorità nei loro confronti fu sintomatico: considerati quasi disertori, anche sulla base delle versioni ufficiali circa le cause della rotta di Caporetto, ovviamente imputata allo scarso coraggio del fante, essi furono controllati e tenuti in disparte. Per loro furono creati addirittura alcuni appositi campi di concentramento. Solo in Emilia ne furono allestiti tre, nei quali  861 uomini morirono  “a causa delle inadeguate condizioni igieniche e  per la scarsità di cibo” ([9]).
Un esempio, della trascuratezza
Una delle prime maschere "antigas"
o impreparazione  con la quale gli alti comandi guardavano (o non guardavano) alle condizioni di vita dei soldati è la vicenda delle maschere antigas con le quali si cercò di affrontare questo insidioso pericolo: benché i gas fossero stati utilizzati in guerra addirittura nel 1900 (quando gli inglesi usarono la lyddite -acido picrico- contro i boeri e poi  nel 1914 dai francesi (gas lacrimogeni) e dai tedeschi a Ypres nell’aprile del 1915, ai soldati italiani furono dati mezzi di difesa “artigianali” fino al 1916. Dopo il sanguinoso attacco austriaco con i gas al San Michele (29 giugno 1916, 6500 caduti) furono distribuite le maschere mod. 1916, dimostratesi poi – per es. il 24 ottobre 1917 a Plezzo- poco efficaci. Solo allora furono distribuite 800.000 maschere francesi M2 (che i francesi avevano fin dall’aprile del ’16), e solo nel giugno del ’18 vennero distribuiti gli  Small Box Respirator, anch’essi in dotazione agli gli inglesi fin dal 1916 ([10]). Niente maschere antigas efficaci, in compenso qualche esemplare delle inutili corazze individuali Farina, pesanti e assolutamente permeabili ai proiettili di mitragliatrici, e acquavite in abbondanza, specie prima degli assalti 
Un a corazza
Solo dopo Caporetto lo Stato Maggiore italiano fece qualcosa per quantomeno conoscere lo stato d'animo e le condizioni di vita  del soldato italiano, con l'istituzione del "servizio P"([11]), un'organizzazione di propaganda, ma anche di assistenza, affidata a un migliaio di ufficiali di complemento (e questo è indicativo), scelti tra coloro che nella vita civile  svolgevano attività intellettuali (e questo è ancora più indicativo)  con il compito di migliorare le condizioni morali e materiali dei soldati. Ma ormai per molti caduti era tardi.

I risultati di questa visione tattica obsoleta e di questo scarso rispetto per la vita del soldato  furono ripetuti quanto inutili e sanguinosi attacchi frontali  all'arma bianca contro reticolati e mitragliatrici, senza turni di  riposo lontani dal fuoco. I caduti furono un numero impressionante: 600 mila su sei milioni di uomini (parte dei quali lontani dalla linea del fuoco), una autentica decimazione. Ai caduti si devono aggiungere i feriti, circa un milione di cui quasi la metà rimasti invalidi per il resto dei loro giorni. Per fare un confronto si può ricordare che nella II G.M. le perdite di militari italiani, scaraventati su innumerevoli fronti (Francia, Albania, Grecia, Iugoslavia, Africa, Russia, Mediterraneo) ammontarono a "solo" 350.000 (circa): nella I, in poco più di tre anni, ci furono 600.000 morti su un fronte di soli 600 km.: un morto al metro!
 Alla lunga, dopo mesi di questo tormento in prima linea, qualche soldato cedeva, si rifiutava di obbedire o di uscire, disertava.  E allora, sovente dalle  retrovie, arrivava inesorabile la punizione, spesso affidata a uomini che avevano più familiarità con il retro del fronte che con  la prima linea.

L'Italia entrò nella I G. M. non solo con una mentalità arretrata dal punto di vista tattico, ma anche con una legislazione penale vecchia quasi di mezzo secolo. Il Codice Penale Militare in uso era infatti quello promulgato il 28 novembre 1869, mentre il Codice Penale Comune era, per così dire, più moderno, non prevedendo, per esempio, la pena di morte. Il Codice Penale era inoltre affiancato da un "Regolamento di Disciplina Militare" del 1872.
La procedura militare era basata sul sistema “inquisitorio”, che tutela le ragioni dello Stato. Per fare un confronto gioverà ricordare che il Codice di procedura penale militare austriaco era  invece “accusatorio” con una maggior tutela dei diritti dell’individuo. In un sistema “inquisitorio” "non è già più concepibile una parità di ruolo tra accusa e difesa (..) Storicamente il sistema inquisitorio divenne lo strumento non per accertare  se l'accusato fosse colpevole, ma per dimostrare che era colpevole" ([12]).
Allo scoppio della guerra il generale Cadorna emanò delle direttive  "che purtroppo non furono felici, né nel loro contenuto, né dal punto di vista tattico" (Bianchi, p.11). In particolare la sua prima circolare all'Esercito del 19 maggio 1915 era  dedicata alla disciplina. Al punto 3 recitava ; "Nessuna tolleranza, mai, per nessun motivo, sia lasciata impunita; la si colpisca anzi con rigore esemplare".. ; (..) "la punizione intervenga pronta: l'immediatezza nel colpire riesce di salutare esempio", (…): Il Comando Supremo “riterrà responsabili i comandanti delle Grandi Unità (..) che si dimostrassero titubanti nell'assumere senza indugio l'iniziativa di applicare, quando il caso non lo richieda, le estreme misure di coercizione e di repressione” ([13]).

Chi occupava posti di comando  e responsabilità non doveva quindi avere esitazioni, pena siluramenti, perdita di possibilità di carriera e anche l'incorrere nel reato di disobbedienza.
Questa ruggente incitazione alla severità troverà  talora volenterosi esecutori.
Le condanne a morte furono, spesso ma non sempre, l'ultimo anello della catena dei processi di guerra: secondo i dati  di Forcella - Monticone fra il 1915 e 1918 ci furono  870.000 denunce: più della metà contro i renitenti, dei quali però  la stragrande maggioranza erano renitenti perché emigrati. Le condanne furono  210.000 e 240.000 le assoluzioni. Il reato di diserzione è quello più frequente, con quasi 190.000 denunce ([14]).  Anche qui, per fare un confronto, possiamo notare che durante la II G. Mondiale, dal giugno del '40 al settembre del '43, ci furono solo 26000 disertori ([15]).
Nel settembre del  1919 fu promulgata un'amnistia che interessò, oltre agli emigrati "regolarizzati", circa 370.000 casi.
Oltre ai fucilati, forse 20.000 persone (ma G. Ronchat  p. XIV  nota che mancano dati precisi) rimasero nelle “orrende carceri militari per 20 o più anni” ([16])  perché condannate per gravi reati. Secondo M. Vitale  ([17]) i tribunali avrebbero irrorato, ma non conosciamo la fonte di tale dato, un totale di 15.345 ergastoli: e non è detto che la prigione fosse sempre preferibile al rischio di un assalto alla baionetta: basterebbe ricordare le condizioni in cui dovettero essere tenuti i 400 prigionieri che dal 1916 al '20 rimasero imprigionati nei cosiddetti "quartieri" del forte di Fenestrelle, in seminterrati bicentenari (dove erano già stati imprigionati nel 1861 circa 200 fra i soldati borbonici di Francesco II  deportati nel nord dopo l'impresa di Garibaldi) in cui, oltre la temperatura gelida del periodo invernale, "vi era sempre un elevato tasso di umidità, per non dire veri e propri rivoli d'acqua che si formavano nei periodi di disgelo" ([18]).
Non era difficile incorrere nei rigori della "legge": guardiamo cosa accadde al fante Giovanni Perdonò, di Foggia, classe 1891, reduce di Libia e chiamato alle armi nel 1915. La sua storia è stata raccontata dal nipote sul periodico Sempre Alpini, n.2, 2016. Verso la fine del ’17 riuscì ad ottenere una breve licenza per recarsi nella sua città natale. Durante il ritorno, però, il treno incappò in uno sciopero, uno dei tanti che ci furono in Italia in quel periodo, e il nostro Giovanni rientrò così nel suo reparto in ritardo. Lì, con sgomento, scoprì di essere stato classificato come disertore e condannato a morte. Magnanimamente gli fu però offerta un’alternativa: arruolarsi come “volontario” negli arditi evitando il plotone d’esecuzione: Costretto a scegliere fra una morte certa e una possibile, il nostro Giovanni divenne, obtorto collo, un ardito. Gli andò però bene: non solo riuscì a sopravvivere alla guerra, ma guadagnò anche una medaglia d’argento al Valor Militare
 M. Dominioni (p.1) cita invece un caso emblematico e drammatico : nella notte di Natale del 1916 sul Monte Zebio gli austriaci "issarono un cartello con la scritta "Buona Natale", gettarono alcune sigarette ai militari italiani del 129 rgt. i quali contraccambiarono col lanci di pane". Questa fraternizzazione col nemico portò, "alla condanna di due militi ad un anno  e di un altro a 8 anni perché avendo lavorato in Germania e conoscendo il tedesco fece da traduttore prendendosi l'accusa di tradimento indiretto".
Sul fronte francese è famosa la “tregua di natale” nata spontaneamente tra soldati francesi, inglesi e tedeschi la notte di Natale (e i giorni successivi) del 1914, quando i soldati erano ancora uomini e non imbestialiti. Incominciò con un soldato- cantante tedesco che intonò canti natalizi dalla trincea. Il canto fu ripreso dalla trincea inglese, dalla quale poi uscì un suonatore di cornamusa di un reggimento scozzese. Poco per volta soldati di tre nazionalità uscirono dalle trincee e fraternizzarono nella “terra di nessuno”("rosbif land", in un eloquente cartello del film) con scambi di doni. La notizia, attraverso la censura delle lettere spedite dai soldati, arrivò ai quartieri generali e provocò autentici brividi di terrore: c’era la paura che i soldati sfuggissero al controllo dei generali. Entrarono così in funzione le corti marziali  e il “fenomeno” (soldati che si riconoscevano uomini) fu stroncato. Rimase però nella memoria di tanti e, nel secondo dopo guerra, fu rivissuto in un famoso (quanto purtroppo poco trasmesso) film francese, Joyeux Noël ([19]). Infine divenne una famosa canzone negli USA degli anni ’70.
Militari inglesie tedeschi che fraternalizzano
durante una "tregua di natale" nel 1914
da https://taskandpurpose.com/history/christmas-truce-world-war-1-history/


 Un esempio analogo lo riporta il diario del Ten. A. Ermes Rosa, volontario dell'8 Rep. d'Assalto "Fiamme Nere", un ardito, insomma: siamo alle pendici del m. Pertica, il 9 ottobre 1918: “In un piccolo spiazzo prima della linea s'alzano dei tumuli (..) su uno un fante sta piantando una croce: "Quando è morto?" chiede G. "L'hanno fucilato stamane all'alba". " Fucilato! E perché?" " Ieri, ha buttato una pagnotta agli austriaci per avere del tabacco " ([20]).

Durante la ritirata di Caporetto, (la colpa della quale  secondo Cadorna sarebbe stata la mancata resistenza delle truppe) le fucilazioni furono usate come metodo per riprendere in pugno gli uomini. In questa operazione si distinse in particolare il generale Andrea Graziani, “il quale, valorosissimo, era sempre in  prima linea e, con un moschetto, dava la caccia a quelli che tornavano indietro”
Il gen. Graziani e il soldato Ruffini (ancora in divisa da
Alpino?)
(
[21]). A lui Pluviano e  Guerrini, ricordato (p.187) che "non siamo in grado di valutare con precisione quanti furono i militari fucilati (fatti fucilare) da Graziani" (..), prendendo in considerazione "solo i casi provati per i quali esistono documenti o testimonianze credibili" , riferiscono "un  totale di trentasei vittime". Gli autori di cui sopra ne ricordano (p.185) una, con le stesse parole con le quali il generale la presentò in una relazione: è il 3 novembre del '17, ore 1630, nella piazza di Noventa Padovana. Siamo durante la ritirata, davanti al generale –nominato il giorno prima ispettore generale del movimento di sgombero (sic!)- sfila una batteria: "allora il mio sguardo fu  attratto da un soldato della quadriglia che stava per giungere alla mia altezza, il quale con ghigno beffardo e sguardo di disprezzo, e di sfida  si era messo in bocca un zigaro e mi fissava spavaldamente in atteggiamento provocante. L'atto del soldato Ruffini distruggeva in un solo istante l'azione morale che avevo svolto e il prestigio della disciplina davanti a tutto il reparto. Sceso dall'automobile ("i generali in carrozza e i fanti a piè", ricorda un vecchio detto piemontese), ho colpito il soldato a colpi di bastone (!), l'ho fatto mettere ai ferri e immediatamente fucilare nella schiena (da un drappello di Carabinieri) sulla Piazza di fronte all'intera colonna" . Il soldato  Alessandro Ruffini di Castelfidardo, 24 anni,  apparteneva alla 10° batteria  del 1°rgt. di artiglieria da montagna. Pluviano e Guerrini riportano poi (p. 188) un pezzo di un articolo dell'Avanti del 28 luglio 1919"Un borghese  interviene  e osserva al generale che quello non è il modo di trattare i nostri soldati. Il generale, infuriato, risponde: Dei soldati io faccio quello che mi piace". Il padre di Alessandro denunciò il generale per omicidio (Pluviano p.189). Il fatto provocò anche, nel '19, interrogazioni parlamentari e articoli sui giornali.
La lapide murata sul muro dell'edificio dove fu fucilato
il soldato Ruffini (Foto di G. Bertoli)
Ancor oggi a Noventa Padovana esiste  sul muro della casa dove l'artigliere Ruffini fu fucilato, una lapide col seguente testo: A ricordo di Ruffini Alessandro n. 29/11/1893 m. 3/11/1917. A fianco è stata recentemente installata dal Comune una targa per ricordare il fatto. Abbiamo letto che i fori dei proiettili che uccisero i giovane  "sopratutto durante il fascismo, sono stati spesso ricoperti e intonacati, ma nottetempo, c’era sempre qualcuno che grattava via la calce, e in paese si diceva che fosse lo spirito di Ruffini, che tornava per chiedere giustizia". Oggi, nell’aiuola di fronte, 
cinque stilizzate sagome di ferro di soldati, opera di un artigiano locale, puntano i fucili e prendono la mira. 

Il 13 novembre a Treviso furono  fucilati  13 soldati ( “per saccheggio, violenza, ribellione a mano armata ai carabinieri”),  il 16 altri 22, compresi alcuni borghesi (Piovano p.190). Il locale vescovo scrisse: “Qui si fucila senza pietà; preghiamo, preghiamo”. Nella primavera del '18 Graziani fu promosso al grado tenente generale.  Nel giugno di quell'anno fece fucilare per diserzione  8 soldati della divisione cecoslovacca, composta da ex prigionieri o disertori dell'esercito austro-ungarico ([22]). Raggiunta la carica di Luogotenente generale per la Milizia  Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), fu trovato morto in circostanze mai chiarite, la notte tra il 26 e il 27 febbraio '31, nella scarpata ferroviaria fra  Prato e Firenze. Vi fu chi ipotizzò che fosse stato ucciso per vendetta ([23]) .
Il gen. Andrea Graziani è ricordato, in prov. di Verona, nella fraz. Valgatara di Marano di Valpolicella nel complesso monumentale del monumento ai Caduti, con un busto con la seguente iscrizione: "Il generale Andrea Graziani ancora e sempre alle generazioni d’Italia ordina di qui non si passa si va oltre". Forse ci starebbe meglio quella frase che l'Avanti del 28 luglio 1919 attribuisce (Pluviano- Guerrini, cit., p. 188) al generale: "Dei soldati io faccio quello che mi piace". Ma ovviamente la mia è un'opinione personale che vale quel che vale...

Copia dell'Avanti del 17 agosto 1919
con un articolo sulle fucilazioni del
gen. Graziani

Fra gli episodi più eclatanti delle esecuzioni sommarie ricostruite nel libro di Pluviano-Guerrini possiamo ricordare i 14 fucilati per sbandamento della brigata Lambro il 25/5/1916, gli 8  della Salerno fucilati  il 3/7/1916 per istigazione alla diserzione, i 5 del 6 rgt. Bersaglieri fucilati  il 31/10/16 per rivolta e, per lo stesso motivo e nello stesso giorno, 5 fanti della Spezia , 5 della Lombardia l'11/12 e altri 10 il 17/5/1917, 7 fucilati nella Brigata Ravenna il 22/3/17, 5 della Gaeta il 30/8/17 per diserzione e sbandamento, 11 della brigata Padova fucilati, sempre per rivolta, il 5/6/17.
Per insubordinazione furono fucilati nel giugno del ’16 quattro alpini della 109° comp. della XXVI divisione: la compagnia si era rifiutata, a quanto pare, di assalire frontalmente il monte Cellon,  nei pressi di Cercivento (Udine) : l’esecuzione fu ripetuta due volte perché una parte del plotone tirò a vuoto ([24]).
Un altro episodio è ricordato nel suo "Diario di Guerra" da Don Antonio dal  Colle, cappellano a Montebelluna: siamo fra il 5 e il 7 maggio 1918, nei pressi del Piave: "5-7 maggio 1918. Al cimitero di Barcon sono stati fucilati quattro poveri soldati che avevano la famiglia al di là del Piave. Pare che un maggiore li avesse uditi dire: “Noi non vogliamo andar contro le nostre famiglie”. Non si può descrivere la disperazione dei quattro poveri soldati, uno dei quali sposato con figli, e l’impressione provocata nei presenti e nella gente di Barcon" (vedi qui ) : quel Maggiore sarà tornato a casa lieto per il dovere compiuto?

Gli episodi più gravi,  pur nella diversità dei numeri, furono forse quelli relativi alla brigata Catanzaro  e alla Sassari.
La brigata Catanzaro, sottoposta ad un vero salasso negli  assalti sul Carso, fu protagonista di diversi episodi di fucilazioni che coinvolsero il 141° e 142° rgt.: 12 "sbandati" fucilati il 27/5/16, 1 fucilato per diserzione il mese successivo e poi l'episodio più  un drammatico il 16 luglio del '17. Quella che fu definita la più grave rivolta nell'esercito italiano durante il conflitto si verificò a Santa Maria La Longa, non lontano da Redipuglia, dove la brigata era stata acquartierata dopo i massacri sul Carso. La rivolta fu domata dai carabinieri. 16 militari, sorpresi con le armi ancora calde, furono subito condannati alla fucilazione. Sugli altri fu effettuata la decimazione: 12 sorteggiati furono immediatamente fucilati. In totale quindi i fucilati furono 28. I soldati deferiti al tribunale furono 135: di questi  4 furono condannati a morte, 2 a 15 anni di reclusione militare. La sorte degli altri non è nota.
            Meno grave nei numeri, ma indicativo per capire quale fosse l'atmosfera che si respirava tra i soldati –e i loro rapporti con gli ufficiali di carriera- è quanto successe alla brigata Sassari, 151° rgt., E' il 10 giugno del '17. Siamo sull' Ortigara, altopiano di Asiago. E' un episodio di fuoco amico: sulle linee italiane cominciano a cadere i colpi corti dell'artiglieria italiana. Un rifugio viene colpito, subentra il panico, i soldati cominciano a spingere verso l'imboccatura e a uscire. Un maggiore "impazzito", interpreta il comportamento dei soldati  come un ammutinamento  e ordina la decimazione  della 3° compagnia. Vengono tratti dai ranghi 4 soldati. Quello che poi accade è poco chiaro. Il plotone d'esecuzione probabilmente sparò in aria, il comandante del battaglione  allora avrebbe ucciso con la sua pistola uno dei quattro che dovevano essere fucilati. Anche lui cadde ucciso. Ci fu un'inchiesta e alla fine tutti gli imputati furono assolti, in quello che forse fu un caso di ufficiale ucciso dai suoi uomini, "una delle tante nefandezze dai contorni ancora oscuri", ([25]) uno di quei casi che, nella guerra del Vietnam, avranno poi anche un nome: fragging ([26]). L'episodio, a lungo rimasto ignoto, fu denunciato – con nomi fittizi- da Emilio Lussu in "Un anno sull'altopiano"  (e il libro, pubblicato in Francia nel '38 uscirà in Italia solo nel '45), ripreso poi da F. Rosi nel '70 nel film Uomini contro e più recentemente da A. Tortato che all'episodio ha dedicato un libro. Altri casi di possibili, non provate, uccisioni di ufficiali ( spesso superiori) da parte dei loro soldati sono ricordati da M. Pluviano – I. Guerrini nel loro libro  (pp. 228-243). Un esempio tra  i tanti per indicare quello che poteva essere lo stato d'animo dei soldati nei confronti di certi ufficiali ce lo dà, a p. 22 del suo diario, un ex ragazzo del '99, il già ricordato T.C. E. A. Rosa, volontario negli arditi: "..mentre ero in tenda odo un gran clamore levarsi dall'accampamento. Esco e vedo i fanti saltare e abbracciarsi urlando e ridendo. Chiedo cos'è successo e mi dicono che è franata la caverna del Comando del Rgt. e che vi è rimasto sotto il Colonnello. Interveniamo noi ufficiali a far finire la gazzarra. La caverna era veramente crollata, ma il Colonnello si era salvato" .
Un altro caso molto discusso è quello relativo alla morte del gen. Cantore ucciso il 20 luglio 1915 sopra Cortina da un cecchino austriaco.  La sua morte è descritta, con considerazioni che ben dimostrano quanto (poco) valesse la vita di un soldato rispetto a quella di un ufficiale, da A.G. Barni, Un automobilista in guerra, Mi. 1917, pp. 165-66: "E’ morto il gen. Cantore (..) Appiattato dietro  un roccia se ne stava scrutando le posizioni nemiche. La sua ombra è scorta dal freddo tirolese cacciatore di camosci (..)  La notizia fa sorgere in molti spontanea la domanda: se sia veramente utile alle finalità di una campagna questo continuo esporsi degli ufficiali superiori sulle prime linee del fuoco (..) Conviene davvero esporre continuamente ai capricci di una pallottola anonima la vita di un generale? La mente che disciplina e dirige l’urto brutale della massa è giusto che si confonda con essa ed il suo sacrificio personale sia eguale in tutto e per tutto al sacrificio dell’ultimo soldato? Non c'è bisogno di commenti..

C’è però anche un’altra versione dei fatti, diffusasi fin dal tempo della guerra, secondo la quale il generale sarebbe stato ucciso da un soldato italiano. Cantore era – così almeno fu definito- un soldato tutto d’un pezzo, chiamato da Cadorna per sostituire il generale Saverio Nasalli Rocca, accusato di essere troppo lento e prudente. La vicenda (e la  diceria dell’uccisione ad opera non del nemico) ha tratto nuovo materiale da una mostra organizzata a Cortina (se non andiamo errati nel ’98) nella quale era esposto anche il cappello portato dal generale quando fu ucciso, con la visiera forata dal proiettile mortale.
 Ebbene, il foro sulla visiera sarebbe risultato compatibile col diametro del proiettile italiano (6,5 mm) e non con quello del proiettile del fucile austriaco Steyr- Mannlicher, più grosso (8 mm.). Quindi  il generale sarebbe stato ucciso da fuoco, per così dire, amico. I sostenitori della versione ufficiale dicono però che, essendo la visiera di cuoio, è possibile che col passare degli anni il cuoio si sia irrigidito e ristretto. Il giallo, così, per chi vuole, continua. L’intera vicenda è leggibile in un articolo di A. Checchi presente in internet (27), mentre sempre in internet una ricerca alla voce “generale Cantore” può dare un’idea dello “stato dell’arte” della dibattuta questione ([28]). Teniamo presente che Cantore fu ucciso nei pressi di Cortina, e che Cortina era all’epoca una cittadina austriaca da 400 anni, dove “l’arrivo delle truppe italiane era stato accolto più come un'occupazione che come una liberazione”.

Particolarmente odiosa era la tecnica della decimazione: Cadorna scrisse che "mezzo idoneo  a reprimere  reato collettivo è quello della immediata fucilazione dei maggiori responsabili, allorché l'accertamento dei responsabili non è possibile rimane il dovere e il diritto dei comandanti di estrarre a sorte  tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte” ([29]).
Le ribellioni di reparti che si rifiutavano di  andare all'assalto  hanno pochi precedenti nella storia militare italiana. Ma almeno uno esiste, lontano, recentemente ricordato in  un testo sulla Guerra delle Alpi del 1792 ([30]), e assai istruttivo. E' il (poco) famoso ammutinamento del Rgt. Vercelli nel 1793, all'epoca della battaglia dell'Authion fra piemontesi e francesi. Il 1° Vercelli è chiamato per l'ennesima volta all'assalto. In realtà non toccava a lui,  ma il suo comandante, il cavalier d'Osasco di Cantarana aveva pregato il conte Vitale, comandante del rgt. Oneglia, che avrebbe dovuto  andare il linea, di  cedere ai suoi uomini quell'onore... Ma i 400 fucilieri del 1° Vercelli il loro turno in linea l'avevano già fatto, e all'ordine del comandante risposero restando immobili, con l'arma al piede: era qualcosa di inaudito, uno sciopero militare compiuto di fronte al nemico: " A nulla valsero le urla, le minacce, gli insulti di fronte a quel muro di facce mute, astute, beffarde", scrivono gli autori. Che fecero allora gli ufficiali? "Pallido di rabbia, l'Osasco chiamò gli officiali. Obbedirono sgomenti, andandogli appresso in una folle carica suicida": 4 furono uccisi, due feriti, sette caddero prigionieri. Per l'ammutinamento collettivo di fronte al nemico anche allora gli Articoli di Guerra prevedevano la decimazione del reparto. Ma le fonti, ricordano gli autori sopracitati, non registrano nessuna punizione collettiva:  nel 1793 gli ufficiali reagirono ad  un  rifiuto della truppa a seguirli andando all'assalto da soli, nel 1917 chiamavano i Carabinieri e procedevano alla decimazione.
Proprio alla decimazione è dedicata la citazione con la quale chiudiamo il nostro articolo. A scrivere è Silvio d'Amico La vigilia di Caporetto. Diario di Guerra 1916-17. Il brano, anch’esso ripreso da Pluviano- Guerrini (pp. 231-232) ma si può  trovare anche in Internet, ricorda un episodio di decimazione di cui non era stato testimone ma che gli era stato raccontato durante un suo ricovero in ospedale e riguardante  fatti  che sarebbero avvenuti il giorno 28 (l'anno dovrebbe essere il 1917, il  luogo e mese non sono precisati). Il sorteggio per la decimazione avvenne  il 30. Tra i sorteggiati ci fu  un complemento arrivato il 29. Al momento dell'esecuzione costui si rivolse al comandante dicendo : "signor colonnello (…), io sono della classe del '75. Sono padre di famiglia. Il giorno 28 io non c'ero. In nome di Dio. Il colonnello con fare paterno gli rispose: io non posso cercare tutti quelli che c'erano o che non c'erano. La nostra giustizia fa quello che può: se tu sei innocente, Dio te ne terrà conto. Confida in Dio. L'uomo fu legato  insieme agli altri, i carabinieri spararono, ma tre  soldati restarono solo feriti e tra loro vi era l'anziano soldato, che si rialzò e urlò: Signor  colonnello, grazia! Per la mia famiglia! In nome di Dio! Il comandante rispose: Dio ti vede, Dio ti giudicherà e lo fece uccidere. Il giorno dopo il reparto uscì all'assalto guidato dal colonnello assassino che cadde tra i primi. Ma le ferite erano, secondo il testimone, in maggior numero sulla schiena che sul petto". Ovviamente lasciamo all'autore del Diario di Guerra la responsabilità sulla veridicità dell'accaduto.
Mille fucilazioni, ma in ognuna c’era un uomo solo davanti ad un plotone: isoliamone una.
E’ quella cui assistette personalmente il già citato ex ardito Ermes Rosa ( p. 121-122): l’esecuzione mediante fucilazione alle spalle di un alpino italiano il 4 maggio del ’18 per “insubordinazione, vie di fatto contro un ufficiale, diserzione di fronte al nemico”: “E’ un bel ragazzo, avrà non più di 22-23 anni (..) le guancie hanno due pomelli rossi, e la gamba sinistra un ticchettio che gli fa battere il piede a terra (..) Fatti due o tre passi si  volta di scatto  verso di noi e a voce alta grida: Salvatela voi la bella Italia (..)Sei uomini in ginocchio, sei in piedi (..) la scarica rompe il pesante silenzio, il condannato non ha un tremito, cade dolcemente all’indietro (..) noi ce ne andiamo subito, nessuno parla. Seppimo poi che fu seppellito sul posto, senza croce”. Senza croce…

 
Uno dei tanti monumenti ai caduti della Grande Guerra.
Saranno proprio caduti "con eroico sorriso"?
Ma cosa succedeva dopo la fucilazione?
Un documento pubblicato in AA.VV., La storia dietro l'angolo. Luoghi e percorsi della ricerca locale, Istit. Intern. di Studi Liguri -Soc. Sav. di St. Patria, s.d. (2011?), p. 68, ci fornisce un esempio della prassi. Si tratta di una comunicazione che l'Ufficio informazioni del 2° Rgt. Alpini invia nel settembre '16 al Sindaco di un comune ligure con il quale "questo Comando compie il funesto incarico" di comunicare l'avvenuta fucilazione a Serpenizza (nei pressi di Caporetto) "per codardia"  del soldato ** di 21 anni, delegando al Sindaco stesso il doloroso incarico  "di darne partecipazione"  alla famiglia, beninteso "con ogni possibile riguardo". 
Del nome del soldato in questione non c'è traccia sul monumento ai caduti del Comune: damnatio memoriae completa! (E, probabilmente, alla famiglia nessun aiuto e forse anche l'ostracismo della gente).



La domanda che  si pongono Pluviano-Guerrini  a p. 270 al termine di queste pagine è se le fucilazioni sommarie siano state “un mezzo estremo, usato di rado e in condizioni disperate”, o uno "strumento terroristico" di uso  abituale per tenere le truppe. Probabilmente nessuna delle due ipotesi estreme è giusta, ed è possibile condividere l'opinione dei due autori citati: "Le dimensioni del fenomeno (..) impediscono di considerarlo un elemento occasionale. D'altronde non ci sono prove che si sia trattato di un' usanza abituale (forse perché non era abituale la disobbedienza del soldato?)  (..) riteniamo però che le esecuzioni extragiudiziali abbiano fatto parte in maniera organica dell'arsenale disciplinare ideato e teorizzato dai comandi".
Ci pare anche interessante il giudizio con il quale  i due autori concludono la loro opera: “Mentre i vertici militari dell’Intesa si dimostrarono estremamente lenti nel fare tesoro delle lezioni di tattica e strategia che avrebbero potuto far risparmiare milioni di vite, furono quanto mai rapidi nel far evolvere, o meglio involvere, le istituzioni e la società. (..) La loro prima preoccupazione politico-organizzativa (..) fu di riaffermare il quadrinomio disciplina, gerarchia, ordine, tradizione. Questo intervento restauratore avvenne non solamente riguardo alla vita militare, ma per la società in generale, e con una rapidità ed efficienza tali da far ipotizzare che l’idea alleggiasse da tempo e aspettasse solamente l’occasione di essere messa in pratica, in un grande e folle disegno di ingegneria sociale destinato ad invertire la tendenza riformatrice che aveva contrassegnato i decenni precedenti”. (ibidem, p.273).
Anche lo storico A. Gibelli ([31]) parla della I G.M. come “generatrice di ordine”:
La classe dominante era decisa a tutto pur di rinsaldare l’ordine e di consolidare il suo potere sulla società. Il Parlamento fu esautorato dal Governo. Una minoranza agguerrita, appoggiata dai centri di potere economici e politici fondamentali (monarchia, grande capitale) riuscì ad imporre la scelta contro una maggioranza debole, incerta, divisa. Rispetto al vecchio mondo liberale stavano emergendo nuove forze e nuovi meccanismi politici. Proprio l’aspirazione delle classi dominanti a riportare l’ordine e a ristabilire le gerarchie profondamente scosse dalle lotte sociali fu uno dei motivi centrali che giocarono a favore  dell’intervento. (..) Sempre più forte si fece  l’esigenza di irreggimentare le classi in modo da spegnere sul nascere la profonda inquietudine sociale. La guerra e l’inquadramento nell’esercito sembravano la soluzione adatta per i riflessi d’ordine che avrebbero generato e l’occasione che avrebbero offerto di ripristinare, tanto fra i combattenti quanto nel paese, il principio gerarchico dell’obbedienza e del comando.
E’  quanto sosteneva già allora, per es. Giovanni Boine (1887-1917) che sulla Voce  scriveva: “In mezzo all’anarchica passione civile e sociale , in mezzo a lotte di interessi e di classe, l’esercito è come un generatore di ordine (…) solo in un luogo si impara  efficacemente  a praticare l’ordine, solo nell’esercito” ([32]).La guerra diventa quindi “ricomposizione, disciplina di massa coatta, restauro gerarchico, enfatizzazione dei valori d’ordine. (..) Per le destre vecchie e nuove (..) basta questa salutare obbedienza imposta ai richiamati tramite la mobilitazione generale a ridare sicurezza all’imperio. Comunque essa venga assicurata, dall’analfabetismo o dal codice militare, (..) la passività delle masse ( e per chi non si allineava c’era il plotone di esecuzione..) è garanzia  di continuità delle oligarchie dirigenti” ([33]). E l’irreggimentazione non riguardava solo i militari, ma aveva pesanti ricadute anche sul mondo civile: “Alla carenza di manodopera dovuta alla chiamata alle armi si cerca di ovviare con sospensioni delle leggi limitatrici dell’offerta di lavoro (turni di lavoro domenicale e di riposo), con impieghi coattivi dei prigionieri di guerra, con destinazione dei condannati ai lavori pubblici e privati. (..) La speciale legislazione di guerra che lo Stato promulga subito dopo lo scoppio delle ostilità permette agli industriali di reclutare decine di migliaia di  donne  senza le usuali garanzie, di concentrarle in stabilimenti spesso inadatti e improvvisati, di occuparle molte ore del giorno e della notte (..) di adottare misure di estrema gravità per evitare le assenze individuali e collettive, i rifiuti di obbedienza, le minacce  di comminare pene severe a donne e bambini”([34]).
La stessa interpretazione anche in F. Fabbri,  Le origini della guerra civile. L’Italia dalla grande guerra al fascismo 1918-1921, UTET Libreria 2009, secondo il quale già prima dell’affermazione del fascismo si era di fronte ad una tendenza all’autoritarismo da parte dello Stato.
Abbiamo invece alcuni dubbi circa l’esistenza di una “tendenza riformatrice” esistente, nell’esecutivo, negli anni precedenti. Anzi, ad avviso di chi scrive, le radici della tentazione -o tendenza – all’autoritarismo andrebbero cercate ben prima degli anni della guerra passando dalla ventata repressiva dopo Caporetto, al patto di Londra (premessa alla dichiarazione di guerra all’Austria) stipulato all’insaputa del Parlamento, alle cannonate di Bava Beccaris del 1898, all’ostruzionismo –chiamiamolo così- di fronte alla nascita delle cooperative e società operaie di mutuo soccorso nella seconda metà dell’800, fino alla repressione dei moti del 1833 e ’21: in pratica un  filo continuo dalla Restaurazione in poi. Ma questa è ovviamente un’opinione personale.



RIABILITARE  I   FUCILATI?

Oggi, a un secolo dai fatti, possiamo considerare questa pagina, terribile e spietata, come una pagina ormai girata, da inquadrare nella situazione (e mentalità) dell'epoca   e da consegnare alla storia?
Non contando i casi di vera criminalità, che certo ci furono, chi finì davanti al plotone d'esecuzione spesso non era meno coraggioso di chi, talora non proprio vicino al fuoco, lanciava ruggenti e spietati proclami da sicure ville nelle retrovie.
Questi uomini fucilati, esasperati, stressati, reduci da mesi di prima linea, sottoposti ad ordini spesso spietati, talora irrazionali (ricordiamo le undici  spallate sul fronte dell’Isonzo ), non furono, nella maggioranza dei casi, né dei traditori né dei vigliacchi.  Occorre riconoscerlo.
 Altrove è stato fatto.
In Francia, come appropriatamente ricordano a p. 2 Pluviano e  Guerrini, (ai quali va il grande merito di aver scritto un libro che doveva essere scritto) il Primo Ministro Jospin il 5 novembre del '98 ha  riabilitato  i soldati fucilati per dare un esempio, “vittime di una disciplina il cui  rigore non aveva  eguale che nella durezza dei combattimenti”, in Inghilterra  J. Reid, allora ministro della difesa,  ha proposto nel '98 di reintegrare a pieno titolo i fucilati  nella memoria nazionale e lord Carlisle il 13 gennaio del '99 ha domandato il perdono per tutti i fucilati  di guerra.  E in Italia?

In Italia ci si  è mossi con un po’ di ritardo.
In Italia è attualmente in discussione in Commissione difesa  il Disegno di Legge 1935 “Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la prima Guerra mondiale”.

Ecco le varie tappe (https://parlamento17.openpolis.it/singolo_atto/48361) dell’iter del Disegno di Legge:
presentato alla Camera il 21/11/2014
approvato dalla Camera il  21/5/2015
passato al Senato (Commissione Difesa) il 25/05/2015
ultimo status (salvo errori) 24/1/2017.

Abbiamo provato ad addentrarci nei meandri della discussione  in sede di Commissione Difesa (http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/45692.pdf): (v. in particolare pp. 38, 46, 47, 86, 87): abbiamo capito perché a proposito di una nuova legge si parla di …travaglio e. ..parto.
Può essere interessante vedere, nel link  sopra inserito,  i mutamenti, anche sostanziali, che la proposta  di legge sta subendo nei vari passaggi ([35]).

Ad oggi (06/01/2019) per quanto ne so la proposta non ha fatto ulteriori passi avanti.






UNA  PAGINA  CHIUSA?

Ma arrivati alla fine di queste pagine c’è ancora una domanda, inquietante: tutto questo sarebbe ancor oggi possibile? Potrebbe capitare ancora?
Leonello Oliveri

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[1] ) http://www.cimeetrincee.it/scrivia.htm
[2][2] ) G. Roncat nella prefazione a  M. Pluviano, I. Guerrini,  Le fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale, Gaspari edit., Udine, 2004 pp. XIII, XIV: “il totale dei soldati italiani fucilati nella grande guerre sale così a oltre 1000,  750 per condanne dei tribunali, 300 senza processo per mano dei loro ufficiali”.
[3] ) Proprio tale indagine, concretizzatasi fra l'altro in una "Relazione sulle fucilazioni sommarie durante la Prima Guerra Mondiale" redatta nel settembre del '19 dall' Avv.to Generale Militare del Regio Esercito A. Tommasi, ha fornito, per es., il materiale per il più volte citato libro di Pluviano e Guerrini. 
[4] )”Gli italiani sprecavano un’enorme quantità di soldati”, scriverà Hemingway, cit. da C. Gatterer, Italiani maledetti, maledetti austriaci, Bolzano,  Praxis 3, 2009 ( in Wikipadia).
[5] )  Dall’osservazione di questa “stupidità” militare –peraltro comune a molti eserciti dell’epoca- che portava ad assalire il nemico là dove era più forte, nascerà uno dei più brillanti saggi sulla guerra, il troppo poco noto –specie in ambito militare- Paride e il futuro della guerra di  B. H. Liddell Hart: “E’ compito della grande strategia individuare e sfruttare il tallone di Achille di una nazione nemica, colpendo non la sua fortificazione più massiccia, bensì il suo punto più vulnerabile: Fu in questo modo che Paride, figlio di Priamo re di Troia – e noto, aggiungiamo noi, più per i suoi exploit amorosi che per  capacità militari-  uccise il campione dei greci”: così Hart scriveva nel  1925, dopo aver assistito agli inutili massacri della I GM. Ma 15 anni dopo i gallonati e brillanti strateghi militari italiani attaccheranno la Francia scagliando la fanteria conto la linea Maginot alpina.
[6] ) Per es.  in quello inglese dove  “la differenza di classe che isolava gli ufficiali  comandanti dai semplici fanti, impedendo la comunicazione tra gli uni e gli altri, si rivelò  fatale al punto che la forza di spedizione britannica cessò, per i mesi che seguirono (fa riferimento alla battaglia di Passchendaele –agosto/novembre 1917- dove gli inglesi ebbero, secondo alcune fonti, oltre 300 mila tra morti e feriti) di avere effettive capacità offensive” (K.O. Morgan, Storia dell’Inghilterra, Bompiani 1999, p. 447.
[7] ) V. G. Unia, Il caso  Araldi. Un generale cuneese oppone al massacro dei suoi soldati sul  Carso della Grande Guerra.(V. anche http://www.alpinia.net/editoria/recensioni/rec_scheda.php?id=174),  e https://it-it.facebook.com/Apibeco/
[8] ) V. anche M. Isnenghi, G. Rochat (a cura di), La Grande guerra 1914-1918, Il Mulino, Bologna 2008,  p. 350. Il dato numerico dei decessi si può trovare anche in C. Pavan, Prigionieri italiani dopo Caporetto, Treviso 2001. Sarebbe interessante anche studiare il numero dei morti fra i prigionieri austriaci in mano agli italiani e le condizioni in cui gli stessi furono tenuti. Drammatiche, per es., le condizioni dei prigionieri austroungarici trascinati nella sua ritirata dall'esercito serbo, affidati, su sua richiesta, all'Italia e  trasferiti all'Asinara, dove per malattie (colera), condizioni igieniche, mancanza di strutture e assistenza, impreparazione generale a gestire (anche allora!) un così gran numero di arrivi in un'isola così piccola ci furono migliaia di morti (ma probabilmente se fossero rimasti in mano ai serbi le loro condizioni non sarebbero state migliori): per saperne di più basta digitare in internet i dannati dell'Asinara.  Sull’argomento v. L. Gorgolini, I dannati dell’Asinara. L’odissea  dei prigionieri austro-ungarici nella Prima guerra mondiale, Liberia Editrice Goriziana, 2010.  ( si può scaricare qui http://mek.oszk.hu/13600/13608/13608.pdf). Ci si potrebbe chiedere perché l'Italia avesse chiesto la consegna di questi prigionieri. La risposta suggerita da P. Sorcinelli a p. 10 della prefazione all'opera di Gorgolini è che  "Anche in questo caso le risposte rimandano a motivazioni prese in nome di una «ragion di Stato» che induce il governo italiano a intervenire sulla Francia per la gestione dei prigionieri austro-ungarici. Con questa mossa l’Italia sperava infatti di acquisire un riconoscimento politico nello scacchiere slavo"insomma, nulla di nuovo sotto il sole..
[9] ) F. Montella, 1918. Prigionieri italiani in Emilia. I campi di concentramento per i militari italiani liberati dal nemico alla fine della Grande Guerra. Sulla tragedia  (perché di tragedia si trattò) della sorte degli ex prigionieri di guerra italiani una volta rimpatriati v. http://www.pietrigrandeguerra.it/ex-prigionieri-di-guerra-e-campi-di-concentramento-italiani/
[10] ) N. Mantoan, La guerra dei gas 1914-1918, Gaspari ed., 2004, p.101.
[11] ) A. GATTI, Dopo Caporetto. Gli ufficiali P nella Grande Guerra: propaganda, assistenza, vigilanza, Gorizia, Libreria editrice Goriziana 2000 p. 83.
[12]) A. Bianchi, Il diritto penale e la procedura militare italiana durante la grande guerra, in www. difesa.it/GiustiziaMilitare/Uffici-Giudicanti/tribunale_la_spezia/bianchi.h...,p.7 (d’ora innanzi Bianchi): recentemente il Tribunale Militare di La Spezia è stato soppresso e le sue competenze accentrate, salvo errori, in quello di Verona. Di conseguenza questo link non è più funzionante. V. anche Pluviano-Guerrini, op.cit.,p.264-5 n.12.
[13] ) M. Vitale, Piombo italiano per un fante di Salcito?  In http://www.cimeetrincee.it/salcito.htm
[14] ) I dati relativi a questo aspetto particolare della I G.M. sono talora diversi nelle varie fonti. E. Nistri, La situazione militare italiana alla vigilia del conflitto (in Storia Illustrata,n. 330, 1985, p.69 ) ricorda invece 128.527 casi di diserzione accertati con 10.272 condanne nel 1° anno di guerra, 27.817 nel secondo e 55.034 nel terzo. A sua volta S.A. Rouzeau-A. Becker, 1914-1918. La prima guerra Mondiale, universale Electa/Gallimard,1998, p. 94 ricorda  che "tra il 1915 e il 1918 il Tribunale supremo Militare registra, su 5.200.000 italiani arruolati, 400.000 denunce per reati commessi sotto le armi, 470.000 denunce per renitenza, 4000 condanne a morte di cui 750 eseguite". Mario Lombardo, in Un milione di soldati italiani processati nella guerra ‘15-‘18 in Storia Illustrata n. 159, 1971, pp. 6-7 ricorda 1.030.000 processi  tra i quali “370.000 riguardavano cittadini italiani richiamati  alle armi mentre erano all’estero e non rimpatriati. Ai primi di settembre 1919 erano chiusi 500.000 processi  dei quali 130.000 con proscioglimento, 150.000 con assoluzione e 220.000 con condanne a pene detentive (..) Il 2 settembre 1919 Nitti  emanò un provvedimento col quale vennero liberati 40.000 detenuti e furono considerati estinti 110.000 processi ancora in corso. Dall’estero giunsero 270.000 italiani a chiedere il condono. In carcere rimasero 20.000 uomini e altrettanti in latitanza, mentre 600.000 approfittarono dell’amnistia. (..) Nel 1924 Nitti scriveva: L’Italia ha ancor oggi  nei luoghi di pena quasi più condannati per reati di codardia che Francia ed Inghilterra messi insieme”. Come si vede, dati talora contrastanti.
[15] ) E. Zucconi, Divisione Monterosa, Novantico editrice, Pinerolo,1996, p.55.
[16] ) G. Roncat, cit., p. XIV.
[17]M. Vitale, Piombo italiano per un fante di Salcito?  In http://www.cimeetrincee.it/salcito.htm.
[18] ) M. REVIGLIOLa valle contesa. Storia della Val Chisone e del forte di Finestrelle, Torino 2006,p. 135.
[19] ) E almeno la scena del canto (Singing scene) merita di essere vista in uno dei tanti video disponibili in rete,  magari a Natale.
[20] ) E. A. Rosa, Un anno con l'armata del Grappa. Odissea di un ragazzo del '99, Iseo, 1982, p. 205.
Teniamo presente che anche l’attuale Codice Penale Militare di Guerra all’art. 56 (Comunicazione illecita con il nemico, senza il fine di favorirlo) punisce con la reclusione da uno a sette anni “il militare che, senza il fine di favorire il nemico, ma senza autorizzazione o contro il divieto dei regolamenti o dei superiori, entra in comunicazione o corrispondenza con una o più persone delle forze armate nemiche o della popolazione dei luoghi appartenenti allo Stato nemico”.
[21] ) Citato da Pluviano- Guerrini, p. 186, 194.V. anche C. A. Loverre, Al muro. Le fucilazioni del gen. Graziani nel novembre 1917. Cronache di una giustizia esemplare a Padova e Noventa Padovana, in Materiali di storia, n. 19, Aprile 2001 p. 10. http://www.centrostudiluccini.it/_old/s_19.htm.
[22]Loverre, cit., p.11.
[23] ) Pluviano - Guerrini, op. cit., p.194. 
[24] ) L. Fazzo,  Le ultime ore degli alpini. Le fucilazioni di Cercivento 90 anni dopo, da La Repubblica 21/7/2003 (da http://www.cimeetrincee.it/artic.htm).  E proprio a Cercivento esiste, per ricordare questi alpini, l’unico monumento –a quanto mi risulta- dedicato  in Italia “a soldati uccisi non dal nemico ma dai propri comandanti”. Anni or sono era stata avviata, non sappiamo con quale esito, un’iniziativa per  ottenere un processo di revisione che restituisse l’onore ai quattro fucilati.
[25]Tuttostoria notizie , n. 123, giugno 2006, p.45  nella presentazione del libro Ortigara, la verità negata, di A. Tortato che a questa vicenda è dedicato.
[26] )In the U.S. military  fragging refers to the act of attacking a superior officer with a fragmentation grenade. The term originated in the Vietnam War and was most commonly used to mean assassination  of an unpopular officer of one's own fighting unit, often by means of a fragmentation grenade, hence the term. Although the term is derived from the grenade, the act was more commonly committed with firearms during combat in Vietnam.
As the war became more unpopular, soldiers became less keen to go into harm's way, and preferred leaders with a similar sense of sel-preservation. If a C.O. was incompetent, fragging the officer was considered a means to the end of self-preservation for the men serving under him” (da Wikipedia). Possiamo tradurre più o meno così: “Nel linguaggio militare USA il termine  fragging si riferisce all'atto di attaccare un ufficiale con una granata a frammentazione. Il termine ha origine nella Guerra del Vietnam ed è stato più comunemente utilizzato per indicare l’uccisione di un ufficiale impopolare da parte della propria unità di combattimento, spesso per mezzo di una granata a frammentazione, da cui il termine. Anche se il termine deriva dal granata, l'atto è stato più comunemente commesso con armi da fuoco durante combattimenti in Vietnam. Se un comandante era incompetente, “fragging” l'ufficiale è stato considerato un mezzo per il fine di auto-conservazione per gli uomini che servono sotto di lui”. Interessante la definizione del “fragging” come mezzo di autoconservazione dei soldati nei confronti di un superiore “incompetent”.
[27]Anna Checchi Un cappello riapre (e forse risolve) il giallo della Grande Guerra:  "Ma quale cecchino nemico, al generale spararono i nostri" http://www.cimeetrincee.it/artic.htm . Così l’autrice termina l’articolo dedicato alla vicenda: “Ora che il famoso berretto è tornato a Cortina, tutti, ampezzani e turisti che hanno seguito la vicenda sul quotidiano locale, fanno la fila davanti al museo per osservare il prezioso cimelio. Guardano il foro, guardano gli esemplari di pallottole esposte là accanto, fanno la prova, vedono che quella austriaca non passa dal buco, l’altra si, e scuotono la testa allibiti. Sarà anche vero che il cuoio si stringe, però… E il giallo continua”
[28]) L’ipotesi dell’uccisione del gen. Cantore per mano italiana non è condivisa, per es., da B. Ongaro, La morte del generale Cantore,  (http://archivio.caiconegliano.it/Esp/Cantore%20Ongaro.htm) , che la ritiene “un’accusa gratuita ed ingiusta”.  Per Wikipedia, invece, “secondo una diffusissima e non trascurabile vox populi, questo suo temperamento a volte crudele e inflessibile avrebbe potuto procurargli la morte per mano dei suoi stessi uomini” (http://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Cantore).
[29]) Citato da F. Riccardo, Le fucilazioni, in http://www.cimeetrincee.it/fucilazi.htm.
[30]) V. Ilari, P. Crociati, C. Paoletti, La guerra delle Alpi 1792-96, Stato Maggiore Esercito, Ufficio Storico, Roma 2000, pp.12-15.
[31] ) A. Gibelli, 2 secoli: ottocento e novecento, vol. 2, Grande Guerra e società di massa, Nuova Io e gli Altri, Ge., 1982, p. 24.
[32] ) ibidem, 27
[33] )M. Ismenghi, Interventismo,  in  Storia d’Italia 2,  La Nuova Italia, Firenze, 1978
[34] ) G. Porisini, Il capitalismo italiano nella Ia Guerra Mondiale, La Nuova Italia, Firenze, 1975.
[35]) il disegno di legge 1935 approvato dalla Camera il 21 maggio 2015
(http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/919262/index.html#)  parlava esplicitamente (art. 1) di “procedimento di riabilitazione” dei militari condannati a morte nonché (art. 2) della “volontà della Repubblica di chiedere il perdono dei militari caduti” mediante l’affissione al Vittoriano di Roma di una targa in bronzo “che ne ricorda il sacrificio”.
Arrivata il 2/11/2016 in Commissione Difesa del  Senato
(http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/45692.pdf nel nuovo testo proposto dal Comitato Ristretto e adottato dalla Commissione iniziano le modifiche: non si parla più di riabilitazione  ma semplicemente (p.38 ) “la Repubblica riconosce il sacrificio degli appartenenti alle Forze armate italiane che, nel corso della prima Guerra mondiale, vennero fucilati senza che fosse accertata a loro carico, a seguito di regolare processo, un'effettiva responsabilità penale”, mentre nella targa affissa al Vittoriano anziché chiedere perdono dovrebbe essere scritto “A chi pagò con la vita il cruento rigore della giustizia militare del tempo offre il proprio commosso perdono”: insomma, invece di chiedere perdono, lo  si concede.
Nella nuova riunione l’8/11/2016 vengono presentati (pp. 46, 47) alcuni emendamenti nei quali si ritorna a parlare di procedimento di riabilitazione e della e la volontà della Repubblica di chiedere il perdono dei militari caduti che hanno conseguito la riabilitazione
Infine, per ora, nella riunione del 24/1/2017 della 5a Commissione Permanente Bilancio (p.88) la  “Commissione programmazione economica, bilancio, esaminati gli emendamenti relativi al disegno di legge in titolo, esprime, per quanto di propria competenza, parere contrario, ai sensi dell'articolo 81 della Costituzione, sulle proposte 1.10 e 1.2. Esprime parere non ostativo su tutti i restanti emendamenti."